Roma, 1 novem,bre 2009 - La neobrigatista Diana Blefari si è impiccata ed è morta nel carcere femminile di Rebibbia a Roma. 

 

La donna - secondo quanto si è appreso - era in cella da sola, detenuta nel reparto isolamento del carcere Rebibbia femminile. Ad accorgersi quasi subito dell'accaduto sono stati gli agenti di polizia penitenziaria che  avrebbero sciolto con difficolta' i nodi delle lenzuola con cui la neo brigatista si è impiccata in cella e avrebbero provato a rianimarla senza riuscirvi.

 

Lo scorso 27 ottobre, la Prima sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna all'ergastolo per la neobrigatista Diana Blefari Melazzi, accusata di concorso nell'omicidio del giuslavorista Marco Biagi, avvenuto a Bologna il 19 marzo 2002.

 

Anche la Procura della Cassazione aveva chiesto la conferma del verdetto emesso lo scorso 9 gennaio dalla Corte di assise di appello di Bologna che aveva inflitto all'imputata il carcere a vita.

 

LA NOTIFICA DELLA CONDANNA DEFINITIVA POCHE ORE PRIMA

Ieri pomeriggio Diana Blefari Melazzi si è vista notificare in carcere dagli uffici giudiziari di Bologna la notizia della condanna definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi. Dopo poche ore la militante br si è tolta la vita. "Sono convinta - spiega oggi l’avvocato Caterina Calia - che la decisione della Cassazione per il delitto Biagi sia stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.


Diana non ha mai accettato questa condanna da parte dei giudici di Bologna
. Riteneva di essere estranea a quella vicenda. Non io personalmente, ma un altro collega, dopo la sentenza della Cassazione del 27 ottobre, era andato a Rebibbia per comunicarle la notizia. Ieri pomeriggio, però, il provvedimento le è stato notificato in cella".

 

APERTA UN'INCHIESTA

Un fascicolo sul suicidio di Diana Blefari Melazzi è stato aperto, come prassi, dal pm di turno, Maria Cristina Palaia. Della morte in carcere della militante br, comunque, è stato informato anche il procuratore aggiunto Pietro Saviotti, coordinatore dei pm del pool ‘antiterrorismo', che ha per lungo tempo indagato sulla Blefari Melazzi nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Massimo D’Antona.

 

OSSESSIONI E MANIE DI PERSECUZIONE

Un’ossessione, vera e propria mania di persecuzione. I lunghi silenzi di Diana Blefari Melazzi, morta suicida a Rebibbia, erano interrotti solo da una frase ricorrente: "C’e’ un complotto, siete tutti d’accordo con D’Alema che mi vuole uccidere". Una vera ossessione che, ricorda un operatore che lavora a Rebibbia, lei riversava su tutti.

 

Accusava le guardie carcerarie quando le portavano il cibo, "mi volete avvelenare". Accusava le altre detenute, "anche voi siete complici dello stesso complotto". Arrivava ad accusare anche i suoi avvocati, "vi manda D’Alema lo so". Poi si chiudeva in lunghi silenzi. Rifiutava il contatto con tutti. Spesso anche con i suoi avvocati: a volte disertava persino i colloqui. E ai silenzi e alle manie di persecuzioni Diana Blefari Melazzi alternava anche atteggiamenti particolarmente aggressivi, violenti. Aveva in più di un’occasione aggredito le guardie carcerarie.
 

 

L'AVVOCATO: "UNA MORTE ANNUNCIATA"

"Ora ci credono, ora chiamano tutti, prima non chiamava nessuno. Non ho proprio voglia di parlare: sono quattro anni che denunciamo le sue condizioni": l’avvocato Caterina Calia, difensore di Diana Blefari Melazzi, non vuole aggiungere altro, "non posso dire cose ragionevoli".

 

Le condizioni mentali della terrorista, condannata all’ergastolo per l’uccisione il 19 marzo 2002 di Marco Biagi, erano state segnalate dagli avvocati ma anche dal Garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’ultima perizia era stata disposta in aprile e stabilì che la Blefari poteva partecipare al giudizio. Il 27 ottobre la condanna all’ergastolo era stata confermata dalla Cassazione.

 

Il garante per i detenuti del Lazio, Marroni, aveva lanciato l’allarme già il 10 ottobre 2007, definendo "sconcertanti" le condizioni della donna, delle quali aveva segnalato il progressivo deterioramento.

 

Arrestata il 22 dicembre 2003, Diana Blefari Melazzi era ricercata da quando venne scoperto il covo di via Montecuccoli a Roma, di cui era intestataria. Riconosciuta come "la compagna Maria" - che Cinzia Banelli indicò fra le staffette che seguirono il professor Biagi la sera dell’omicidio - alla Blefari sono stati attribuiti il noleggio del furgone usato per la preparazione dell’omicidio e la partecipazione al pedinamento del professore a Modena. Sul suo portatile fu rivenuto anche il file con la rivendicazione dell’omicidio.

 

Il prossimo 23 novembre sarebbe dovuta andare a giudizio per aver aggredito, nel maggio 2008 a Rebibbia, un’agente di polizia penitenziaria. Il rinvio a giudizio era stato disposto dal Gup Pierfrancesco De Angelis dopo che il perito, lo psichiatra Antonio Pizzardi, aveva stabilito che l’imputata è capace di stare in giudizio perchè si rende conto dell’esistenza di un processo e delle sue conseguenze. La sua calligrafia era quella di una persona normale e l’ex br aveva risposto in modo equilibrato al test cui è stata sottoposta.

 

Secondo l’esperto la Blefari Melazzi, la cui capacità di intendere e di volere era grandemente scemata al momento del fatto, era pericolosa socialmente, alla luce delle imputazioni formulate a suo carico.

 

IL GARANTE DEI DETENUTI: "UNA SITUAZIONE GRAVISSIMA DA TEMPO"

"Il sistema carcerario italiano ha dato, ancora una volta, l’ennesima dimostrazione di inumanità e inefficienza non riuscendo a cogliere i segnali di allarme di una situazione da tempo gravissima". Lo ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando il suicidio, in una cella del carcere di Rebibbia, di Diana Blefari Melazzi.

 

"I precedenti familiari della donna - ha aggiunto Marroni - le sue condizioni psichiche in tutto il periodo di detenzione, il suo comportamento quotidiano, la sua solitudine, il suo rifiuto del cibo, delle medicine e di ogni contatto umano contribuivano a tratteggiare un quadro complessivo che doveva necessariamente far scattare un campanello d’allarme che, evidentemente, non si è attivato in tempo".

 

Il Garante ha ricordato che due anni fa, nel novembre del 2007, aveva già denunciato pubblicamente il caso della Belfari Melazzi soggetto schizofrenico e inabile psichicamente, figlia di madre con la stessa malattia e morta suicida ristretta in regime di 41 bis. "Nel suo delirio la Blefari Melazzi - scriveva all’epoca Marroni - ritiene che la struttura carceraria (agenti e detenute comprese) agiscano contro di lei.

 

Le detenute dell’alta sicurezza, sezione attigua al 41 bis, ascoltano quotidianamente le sue urla e i suoi lamenti. Per lunghi periodi la donna non mangia e si chiude al mondo, rifiuta i farmaci e trascorre intere giornate a letto, al buio e senza contatti neanche con i familiari e l’avvocato. Inviata due volte all’osservazione psichiatrica di Sollicciano sembra migliorare, ma una volta tornata a Rebibbia le sue condizioni peggiorano di nuovo".

 

"Evidentemente - ha concluso Marroni - il fatto che dopo gli allarmi sia stato declassato il regime dal 41 bis a detenuta comune non ha comunque aiutato questa donna che ha continuato a tenere un atteggiamento di totale chiusura verso tutto e verso tutti. A quanto sembra, nei giorni scorsi era stata fatta tornare da Sollicciano per sentirsi confermare la sentenza. Io credo che, fermo restando le sue responsabilità, questa donna dovesse essere curata e assistita lontano dal carcere".
 

Taciturna e schiva, la neobrigatista Diana Blefari Melazzi non era piu' detenuta in 41 bis (il cosiddetto 'carcere duro') ma in regime di detenzione comune e, dopo una serie di trasferimenti dal penitenziario dell'Aquila a quello romano di Rebibbia passando attraverso l'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e il carcere di Sollicciano, era tornata lo scorso 21 ottobre nel carcere femminile della Capitale. A Rebibbia, dove nel 2008 aveva aggredito una agente di polizia penitenziaria e per questo era stata rinviata a giudizio, le era stata assegnata una cella singola nel reparto ''Cellulare'' della sezione femminile, vicino al gabbiotto delle agenti di guardia. Nei confronti della Blefari - sottolineano fonti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - sarebbero state adottate tutte le misure necessarie ad una attento controllo, anche in considerazione delle ultime indicazioni psichitriche.

La direzione del carcere aveva infatti disposto che il blindato della cella della neobrigatista rimanesse aperto e che la polizia penitenziaria la sorvegliasse con attenzione per poi relazionare. Al momento del suicidio della donna, una delle due agenti in servizio avrebbe avvertito un rumore, uno stocco, provenire dalla cella della Blefari. Nonostante l'immediato intervento, per la neobrigatista non c'e' stato niente da fare.

 

IL 'NO COMMENT' - Olga D'Antona, vedova del giuslavorista assassinato dalle br, ha dichiarato: "Non voglio commentare la notizia del suicidio della Blefari".