TRIPOLI (Libia), 29 maggio 2010 - SE AL PORTO di Zuwara i trafficanti di uomini si sono riconvertiti a far filtrare dalla frontiera tunisina qualche cassa di alcool, se dalla costa libica non salpano più verso Lampedusa bagnarole cariche di sogni e disperazione e sulle piste del Sahara i camion della speranza e della morte si sono ridotti a un terzo rispetto ad un anno fa, una ragione ci sarà. Anzi, c’è. Ora i libici fanno sul serio. E’ uno dei frutti dell’accordo di Bengasi del 30 agosto 2008 tra Berlusconi e il leader Gheddafi che dopo la ratifica del marzo del 2009 ha iniziato a porre radici nell’estate dello scorso anno. Racconta una fonte occidentale a Tripoli che il regime ha agito su due fronti. Uno più politico presso le cabile (le tribù) che traevano profitto dall’immigrazione clandestina sulla quale percepivano una sorta di «tassa di transito»: ora basta, era il messaggio, la tolleranza è finita. E il secondo fronte è stato strettamente giudiziario: prima con l’approvazione di una legge che introduce il reato di traffico di clandestini e poi, nelle scorse settimane, con una raffica di arresti che ha colpito le nove teste dell’idra criminale che gestiva il traffico e un selezionato numero di funzionari pubblici, doganieri e poliziotti.

Quasi 500 arresti tra le mafie di Zuwarah, Zlitan, Sebha, Bengasi, Marzuch, Tobruch, Kufrah, Awbari e naturalmente Tripoli. E novantatre tra gli infedeli servitori della Jamahirija. Il combinato disposto è stato il blocco delle partenze verso l’Europa e la riduzione degli arrivi a quanto il mercato interno libico — dove già ci sono 2 milioni di immigrati, spesso trattati come schiavi — può sopportare. «L’accordo italo-libico — osserva Margherita Boniver, che ha guidato una delegazione del comitato Shengen da lei presieduto — ha dato frutti estremamente positivi soprattutto in materia di contrasto ai flussi di immigrazione illegale. Tra noi e i libici c’è un linguaggio che ci accomuna: quello della fermezza e dell’umanità nel trattare le centinaia di migliaia di persone che fuggono dalla povertà».

MA SULL’UMANITÀ ci sono idee discordanti. Al campo di Twisha, 35 chilometri a sud della capitale, il migliore dei 18, messo a nuovo in occasione della visita della dellegazione italiana, le condizioni sono precarie. «Prigioni al limite della decenza», chiosa il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni. Visto da fuori, il campo, a parte mura e filo spinato, pare quasi gentile. Prati verdi, panchine. Peccato che gli oltre 800 disperati che sono rinchiusi stanno in delle specie di capannoni industriali, con portoni di metallo e finestrelle da 40 centimetri chiuse da ferritoie. All’interno niente letti, solo stuoie. Niente sala refezione, due bagni, un cortiletto recintato per prendere un po’ d’aria. In trecento metri quadri 300 persone. «E il problema — osserva il vicepresidente del comitato, Ivano Strizzolo (Pd) — è anche che i libici non hanno limiti di permanenza: potrebbero rimanerci anche anni». E spesso ci rimangono.

«Sono condizioni accettabili per un Paese sottoposto a un flusso così inteso — ribatte la Boniver — e poi hanno aperto un centro sanitario e le condizioni complessive sono largamente migliorate». Sarà. Secondo Laurence Hart, rappresentante a Tripoli dell’organizzazione internazionale delle migrazioni «se vi sono violazioni dei diritti umani queste non risponono ad una strategia del governo ma al sovraffollamento dei centri». Per Amnesty o l’Unhcr violazioni dei diritti umani ci sono eccome. «Non solo alberghi a 5 stelle — ribatte il presidente della commissione esteri libica Suleiman Shuhumi — ma il trattamento è dignitoso e certo non c’è tortura».

«QUANDO i controlli erano lenti — chiosa un funzionario del campo — dicevate che li mandavamo a morire, ora che sono più stretti vorreste un trattamento come in Svezia. Non volete più barconi sulle vostre coste? Lasciateci lavorare». A modo loro, e lontano dai nostri occhi.