Roma, 13 novembre 2010 - Si può dare dello 'spione' e 'ruffiano' al vicino di casa, se lo merita. E se la lite condominiale finisce in tribunale, gli appellativi - dice la Cassazione - possono essere ripetuti in un’aula di giustizia per dimostrare che la persona in questione è stata così etichettata perché ha cercato di 'adulare' l’inquilino. È per questa ragione che la Quinta sezione penale ha bocciato il ricorso di un 63enne di Gaeta, Gennaro D.C., che si era sentito diffamato e per questo chiedeva di essere risarcito dal legale del vicino di casa Leonardo M. che in aula aveva detto: “se gli altri confinanti fossero stati degli spioni o ruffiani come lo stesso Gennaro D.C....”.
 

La lite tra i due vicini di casa, ricostruisce la sentenza 39618, risale addirittura a trent’anni fa. Nel 1980, infatti, il signor Gennaro si era preso la briga di andare a riferire al vicino Leonardo M. che i confinanti avevano illegittimamente aperto una servitù di veduta. Una 'soffiata'che, come annotano gli ‘ermellini', solo in apparenza era stata fatta per fare cosa gradita a Leonardo. In realtà Gennaro D. C. voleva solo “fare i suoi interessi”. La vicenda è finita davanti al Giudice di pace di Gaeta che, il 6 luglio 2009, aveva assolto l’avvocato Antonio D. “perché il fatto non costituisce reato”.


Una sentenza assolutoria non gradita dal vicino di casa etichettato come 'spione' e 'ruffiano' che ha fatto ricorso in Cassazione per chiedere i danni patiti anche sulla base del fatto che gli appellativi erano finiti agli atti. Piazza Cavour ha respinto il ricorso di Gennaro D.C. e ha evidenziato che l’appellativo 'ruffiano' è stato utilizzato “in senso figurato, volendo indicare una persona che cerca di acquistarsi il favore altrui con l’adulazione o con atteggiamento di ostentata sottomissione”.
 

In effetti, osserva ancora la Suprema Corte, legittimamente il Giudice di pace “ha ritenuto che l’espressione usata fosse funzionale all’esercizio del diritto di difesa e direttamente collegata all’oggetto della causa”. In pratica, il legale dei Leonardo M., spiegano i supremi giudici, si era riferito ad un “episodio di diversi anni prima quando fu proprio Gennaro D. C. ad avvertirlo che alcuni vicini avevano aperto una servitù di veduta: in tale contesto si spiegavano i termini ‘spione' e ‘ruffiano'”.