Milano, 27 dicembre 2010 - Pubblichiamo la testimonianza della dottoressa Gildanna Marrani dopo una visita al carcere di San Vittore, a Milano:

"Sono trascorsi più di 15 anni dal giorno in cui, annata di tanto coraggio e fede, decisi con me stessa di visitare il principale carcere milanese, con quella sana curiosità e quel mio buon senso che anche in quella occasione non mi avrebbe tradito. Allora come oggi i giudizi sono personalmente contrastanti: sono passati molti anni, ripeto, ma l'effetto choc è il medesimo, l'effetto di una donna libera all'interno di un istituto dove la libertà è ormai solo una chimera.

Oggi come allora sono stata accompagnata da uno dei massimi dirigenti-ispettori dell'Istituto penitenziario, che con gentilezza e disponibilità ha accettato di accompagnarmi in questa breve ma intensa odissea nel sistema penitenziario-sanzionatorio italiano. Viaggio assai interessante, viaggio problematico e commovente, ma sempre interessante.

Fin dall'ingresso capto e respiro un sentimento di paurosa chiusura verso il mondo esterno: certo, colgo l'occasione di vedere detenuti che escono e rientrano, vedo persino madri che entrano con i loro piccoli, e poi guardie, dipendenti che si avviano a casa; ma l'impressione è quella di un consapevole e voluto processo di distacco dal mondo esterno, quell'universo sociale dove il reo ha sbagliato o non ha saputo conformarsi alle norme giuridiche vigenti.

Un processo che forse attraversa la storia carceraria dei decenni precedenti ma che a tutt'oggi non sembra mutato. Il direttore del carcere, dottor Pagano, non c'è. Cortesemente chiedo a quest'ultimo se posso visitare il carcere e lui gentilmente mi presenta un importante ispettore che mi aiuterà nel breve e intenso viaggio all'interno del luogo del "Peccato", dove si incrociano e molto spesso si perdono le vite di chi ha scelto la via del reato e del crimine.

Una via molto spesso seguita in conseguenza del venir meno di importanti parametri sociali e psichici, come l'affetto famigliare, il rispetto per la vita altrui, la considerazione dell'esistenza del prossimo, il rispetto della legge. E' davvero difficile dubitare della buona fede di chi amministra il carcere di San Vittore poiché tutto al suo interno è strettamente vagliato su di un unico scopo: la rieducazione del condannato, il tentativo della sua socializzazione.

Mentre percorro il corridoio antistante i raggi del carcere non posso fare a meno di notare l'educazione estrema con cui i detenuti mi salutano e salutano il loro ispettore, quel rispetto che molto probabilmente è stato inculcato loro dopo anni di pesanti condizionamenti da parte dell'apparato carcerario.

Un "Buongiorno, buonasera" che sembra più un rituale verso gli 'sconosciuti' del carcere che un vero moto dell'anima. Chi ha sbagliato deve pagare, questo ci insegna la legge e le norme che la contengono, questo ci insegna il sistema di diritto penale dall'illuminismo ad oggi. Sono passati più di duecento anni, ma la dolorosa realtà della pena e dell'espiazione è ancora una piaga aperta nel cuore della nostra società: lo Stato, mi chiedo in questo viaggio, sa con certezza perché l'uomo sbaglia? Sa perché l'uomo si allontana dalla retta via in un momento della sua non facile vita?

I raggi che visito sono tre: ciascuno spazio è riservato a particolari categorie di criminali e tutti e tre confluiscono paradossalmente nella sala rotonda dove la domenica si celebra la Santa Messa, momento di conforto laddove sembra che la speranza abbia abbandonato queste persone allo sbando.

Vedo numerosi detenuti dietro le sbarre: appaiono tranquilli rispetto alla loro realtà di rei e di soggetti privati dal giudice della loro libertà; credo che la presenza di psicologi, come mi spiega gentilmente l'ispettore, all'interno della struttura, aiuti questi soggetti a superare il trauma del delitto, del senso di colpa (se ce l'hanno), dell'aver subito la privazione della propria libertà. Una libertà che certamente queste persone, questi uomini e donne non hanno saputo utilizzare a fini costruttivi e 'sociali', se così possiamo chiamarli, cioè quegli scopi che rendono giusta un'esistenza: il lavoro, la retribuzione a fine mese, la distanza dalla droga e dal suo commercio, la perdita del vizio di delinquere in un mondo dove il controllo anzi l'ipercontrollo da parte dell'Autorità rappresenta una costante dei paesi più civilmente avanzati.

Al suo interno, il carcere di San Vittore appare un'immensa organizzazione volta al recupero personale del condannato: oltre alla presenza di medici e psicologi che curano le turbe fisiche, psichiche e affettive del detenuto, visitando la parte femminile del carcere, noto una forte tendenza al recupero attraverso il lavoro manuale. Del resto il lavoro è giuridicamente il principale strumento di recupero per persone che probabilmente non l'hanno mai considerato come una vera attività legale di vita.

Entrando nella parte femminile del carcere, noto con estrema curiosità che qui l'ordine, la pulizia e la solidarietà tra carceriere e detenute è più sviluppata rispetto alla parte maschile. E' indubbio che un'attività lavorativa sproni l'individuo verso una vera rieducazione sia umana che pratica: una rieducazione dalle basi che ha la funzione di permettere al condannato di reinserirsi in società, una volta che la pena sia stata scontata, evitando possibilmente qualunque recidiva.

Purtroppo devo dare un giudizio negativo sull'ancora attuale sovraffollamento del carcere, un sistema che sicuramente non aiuta una sana vita quotidiana all'interno di una struttura, come quella di San Vittore, che ha funzione punitiva e correttiva. Forse sarebbe auspicabile la costruzione di carceri più modernamente attrezzati e più ampi, con celle che non ospitino più di due o tre detenuti al massimo. Una struttura che oltre alla funzione punitiva e rieducativa, offra anche la possibilità di un incontro vero con il recupero sociale, quest'ultimo non potendo avvenire in strutture penitenziarie troppo piene e sovraffollate.

Ascolto con interesse novità purtroppo negative da parte dell'Ispettore: il venir meno di attività occupazionali come i lavori manuali di idraulica e i lavori di pelletteria, tutte attività che avrebbero sicuramente dato un'importante aiuto al reo, costretto ad un isolamento dal mondo esterno e dalla società che, se non condotto con umanità, può portare ad aberrazioni e malattie mentali anche gravi. Malattie che insorgono sempre (lo affermo come medico) quando il distacco dalla realtà quotidiana risulta eccessivo. Malattie che probabilmente sono frutto di un sistema sanzionatorio ancora oggi negativo, che dà più importanza ai meccanismi del castigo e della pena che alle imprescindibili esigenze del recupero dei detenuti.

Il mio viaggio termina alle 18.30 circa. Saluto l'Ispettore e mi avvio verso l'uscita. Mi accorgo di come l'apparato di sicurezza sia ferreo all'interno del carcere: il mio cellulare è stato sistemato in un'apposita cassetta di sicurezza, prima che entrassi. Adesso devo ritirarlo. Per poter nuovamente comunicare con il mondo, quel mondo che ahimè i detenuti e tutti coloro che anche in attesa di giudizio soggiornano in carcere non possono vedere che attraverso spesse sbarre, dalle quali forse si aspettano un futuro più roseo e meno irto di acuminate spine. In fondo, l 'umanità non si nega a nessuno.