Roma, 1 settembre 2011 - Un dirigente guadagna 356 euro al giorno più di un operaio, rispetto alla retribuzione di un “quadro”, un operaio prende in meno ogni giorno 127 euro mentre, rispetto a un impiegato, la differenza è di 22 euro: a fronte della divaricazione eccessiva delle retribuzioni, occorre restituire risorse ai lavoratori e alle famiglie del ceto medio e per questo è “assolutamente ripristinare nella manovra economica il contributo di solidarietà e la misura patrimoniale”.

E’ quanto ha affermato il presidente delle Acli, Andrea Olivero, commentando i dati diffusi del rapporto dell’Iref - l’istituto di ricerca delle Associazioni cristiane dei lavorati italiani- presentato nella giornata di apertura del 44° Incontro nazionale di studi, a Castel Gandolfo, dedicato al tema del “Lavoro scomposto”. “Al di la’ delle ovvie componenti organizzative che fanno riferimento a diverse mansioni, ruoli e responsabilita’, sono dati - ha sottolineato il presidente delle Acli - che mettono in evidenza una divaricazione eccessiva delle retribuzioni, che non puo’ non essere presa in considerazione in queste ore in cui si discute di sacrifici per il Paese.

Ancora una volta la questione della redistribuzione si rivela cruciale. Non solo per esigenze di giustizia e di coesione sociale, ma per oggettive ragioni economiche.

Restituire risorse ai lavoratori e alle famiglie del ceto medio è l’unico modo per garantire la tenuta dei consumi e il rilancio del Paese. Occorre assolutamente ripristinare nella manovra economica il contributo di solidarieta’ e la misura patrimoniale”.

Secondo il rapporto dell’Iref, che mette a confronto le retribuzioni, sono queste le medie giornaliere dei lavoratori dipendenti nelle diverse professioni del settore privato: “Rispetto alla retribuzione media giornaliera (82 euro), un dirigente guadagna 340 euro in più al giorno, un quadro 111 euro, un impiegato 6 euro in più. Un operaio si mette invece in tasca un salario giornaliero di 16 euro inferiore alla media. Peggio di lui solo il lavoratore apprendista, che guadagna in meno 31 euro al giorno. Le donne, rispetto agli uomini, ricevono in media al giorno 27 euro in meno”.

Quello sui salari è solo uno dei dati presi in considerazione dalle Acli per mostrare le difficoltà e le contraddizioni di un mondo del lavoro “scomposto”, che necessita di una “profonda riorganizzazione”. “Considerare la situazione attuale frutto esclusivo della congiuntura economica puo’ essere fuorviante”, scrivono le Acli, che invitano a “non dimenticare i ritardi storici del sistema produttivo italiano”.

Il lavoro sommerso: 12 posti di lavoro su 100 sono oggi irregolari, 18% al Sud e il 27% il Calabria. La struttura della produzione: solo lo 0,1% di grandi imprese contro lo 0,5 della Germania e lo 0,4 della Gran Bretagna. Il prospetto demografico sempre piu’ negativo: l’indice di ricambio della popolazione attiva (rapporto tra popolazione 15-24 anni e popolazione 55-64 anni, moltiplicato per cento) pone oggi l’Italia in una posizione intermedia rispetto all’Europa ma e’ destinato a peggiorare nettamente da qui a 20 anni. In tema di occupazione, secondo lo studio, diminuiscono gli occupati di fascia alta, cresce l’occupazione non specializzata. “Gli indicatori di occupazione e disoccupazione - scrivono i ricercatori dell’Iref - pur evidenziando dinamiche fondamentali come l’ingresso e l’uscita dal mercato del lavoro, non sono sufficienti per analizzare lo stato di salute di un sistema occupazionale”.

Ragionando sugli effetti della crisi sulla qualità dell’occupazione, le Acli segnalano la progressiva diminuzione degli addetti alla manifattura tradizionale (-1,1% dal 2004 al 2007; -4,4% dal 2007 al 2009) e l’inversione di tendenza nei settori dell’high-tech, che tornano a scendere del 2,8% nell’ultimo triennio rilevato dall’Istat. Nel 2010 sono andate perse circa 70mila posizioni dirigenziali, hanno perso il lavoro 78mila professionisti della conoscenza e oltre 100mila tecnici. Questo nella fascia alta della forza lavoro. 110mila sono stati invece gli operai specializzati e gli artigiani costretti a lasciare i lavoro. Hanno fatto ingresso nel mercato del lavoro soprattutto donne in posizioni professionali non specializzate (+108mila) o impiegatizie (+58mila). In sintesi, “a fronte di una perdita di occupati di fascia alta, si ha un ulteriore allargamento della base occupazionale poco o per nulla specializzata”.


Secondo le Acli la composizione interna degli occupati presenta dualismi e divari “non piu’ sostenibili”, tra lavoratori piu’ o meno garantiti. Quasi un lavoratore su quattro (23%) ha una occupazione “non standard”, ovvero non a orario pieno e non a tempo indeterminato: il 12%, pari a 2milioni e 700mila individui, è un lavoratore a tempo parziale, mentre l’11% e’ un atipico (tempi determinati e collaboratori). Il lavoro a tempo parziale interessa maggiormente le donne: le part-timers sono un 1milione e 800mila. Per gli atipici il rapporto di genere e’ pressoche’ pari mentre l’eta’ evidenzia una buona quota di giovani (39%), ma soprattutto un’elevata percentuale di individui adulti (il 48% degli atipici ha tra i 30 e i 49 anni).

“Dopo quindici anni di flessibilizzazione del mercato del lavoro - commentano le Acli - sembrano essersi consolidate due generazioni di lavoratori flessibili: giovani in ingresso nel mercato del lavoro, adulti per i quali la fase dell’inserimento lavorativo e’ terminata ma che si ritrovano nelle stesse condizioni contrattuali di partenza. Riguardo ai disoccupati, il rapporto evidenzia un milione e mezzo di ‘scoraggiati’: piu’ del doppio della media europea.

Uno dei fattori più importanti nelle crisi economiche - rileva lo studio - è la capacità di riassorbimento del mercato del lavoro. A livello europeo l’Italia fa parte del gruppo di Paesi nei quali i disoccupati di lunga durata (almeno 24 mesi) superano il 45% del totale dei disoccupati. Mezzogiorno a parte, il dato più preoccupante è quello del Nord-Est, dove dal 2002 al 2007 la disoccupazione di luna durata è passata da un esiguo 17% a un ben piu’ consistente 31,4%, tornando poi a scendere nel 2008 (29%): “Una delle aree piu’ dinamiche del paese non riesce piu’ ad occupare coloro che sono fuori dal mercato del lavoro da troppo tempo”.

E sempre a proposito dei disoccupati di lungo corso che sono quella quota di inattivi che si è soliti definire “scoraggiati”, ovvero individui disponibili a lavorare ma che dichiarano di non cercare lavoro perche’ sfiduciati rispetto alla possibilità di ottenere un impiego, le Acli rilevano che in Europa questo dato continua ad oscillare attorno al 4% (sul totale degli inattivi) e sembra essere in moderata crescita per l’anno 2010 (4,6%). In Italia invece il dato e’ piu’ del doppio e tra il 2009 e i 2010 e’ cresciuto di quasi un punto percentuale, arrivando al 10%. Nel complesso gli scoraggiati rappresentano 1 milione e mezzo di persone, in gran parte concentrate nelle regioni meridionali.

Altro capitolo dolente è quello dei ‘sottoccupati e sovra istruiti’ a fronte del paradosso degli immigrati. Sottoccupazione e sovra istruzione, secondo lo studio delle Acli , denotano l’incapacità di un mercato del lavoro di valorizzare risorse e competenze. Tra gli immigrati, la percentuale di sottoccupati (individui che dichiarano di aver lavorato, per motivi indipendenti dalla propria volontà, meno ore di quelle che avrebbero potuto o voluto fare) e sovra istruiti (persone che svolgono un lavoro che richiede un titolo di studio inferiore a quello in loro possesso) e’ maggiore rispetto agli italiani. La sottoccupazione interessa infatti il 4% dei lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri si supera il 10%. La percentuale di sovra-istruzione tra gli italiani e’ del 19% . Tra gli stranieri supera il 42%. “Si e’ ormai consolidato in Italia un modello di specializzazione dell’occupazione straniera nel segmento basso del mercato del lavoro: gli immigrati svolgono i lavori piu’ disagiati e meno remunerativi anche se hanno credenziali formative utili a ottenere impieghi migliori”.