di Cristiano Bendin

FERRARA, 31 agosto 2012 - “Con la scomparsa del cardinal Martini, il dialogo ebraico-cristiano subirà un qualche rallentamento però non bisogna rassegnarsi. Anzi, dobbiamo trarre spunto da questo triste fatto per insistere e continuare lungo la direzione tracciata”. La voce di Giuseppe Laras, rabbino capo di Milano dal 1980 al 2005, è ancora incrinata dall’emozione quando viene raggiunto al cellulare per commentare la notizia della morte “dell’amico” cardinale.

Studioso del pensiero ebraico, presidente del Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia, Laras è, assieme a Martini, uno dei due pilastri attorno ai quali si è costruito, negli anni fecondi della guida spirituale martiniana, il dialogo tra ebrei e cattolici sfociato poi nella visita di papa Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma. Inevitabile, dunque, il riferimento a quella stagione e al significato della scomparsa dell’insigne pastore.

Con la morte di Martini le viene a mancare un interlocutore spirituale ma anche un amico. Qual è il suo stato d’animo e il suo pensiero in questo momento?

“Provo una certa difficoltà a considerare il fatto che una figura così importante per il dialogo non ci sia più. Nonostante la malattia lo avesse limitato nei movimenti, la sua mente è rimasta lucidissima fino all’ultimo istante e lui continuava ad essere una figura di riferimento imprescindibile per i sostenitori del dialogo. Non posso dimenticare il grande impulso che ha dato al dialogo quando arrivò a Milano. Lui era un intellettuale, timido e schivo, che si ritrovò ad un certo punto catapultato nella realtà vescovile, a capo della diocesi più grande del mondo. Un giorno, scherzando, mi disse che se avesse potuto si sarebbe ribellato al Papa! Poi si mostrò subito all’altezza della situazione: non dimentichiamo che quelli erano anni difficili, per Milano e per l’Italia. Anni di disordini, omicidi e tensioni politiche”.

A quando risale il vostro ultimo incontro?

“Lo andai a trovare pochi mesi fa a Gallarate, all’Aloisianum. Fino all’ultimo aveva quegli occhi buoni, sereni e rassicuranti che tanto mi avevano colpito la prima volta che lo vidi, nel 1980, e che erano la sua vera forza. In quell’occasione ci guardammo negli occhi e, con l’aiuto di un interprete, parlammo dell’importanza di quello che abbiamo fatto e stiamo facendo e che bisogna continuare a fare. Era molto grato e commosso, ci siamo abbracciati e quello è stato un momento non dico storico ma importante”.

Ora che Martini non c’è più, il dialogo è secondo lei a rischio?

“Con la sua scomparsa il dialogo subirà un qualche rallentamento però non bisogna rassegnarsi . Anzi, trarre spunto da questo triste fatto per insistere e andare avanti in quella direzione. Io gli dicevo spesso che un difetto del dialogo era un eccessivo verticismo e lui, che ne era ben consapevole, mi disse: ‘Bisogna insistere e mantenere vivo il dialogo a tutti i costi’. Oggi ci sono meno persone di un tempo e anche meno motivate ma il dialogo c’è e bisogna cercare di alimentarlo. Noi lo faremo anche nel ricordo del cardinale Martini”.

Lei ha ricordato il 1980: qual è il primo ricordo che ha di lui?

“Era nella primavera del 1980: lui da pochi mesi aveva preso possesso della diocesi più grande e difficile del mondo e io avevo appena assunto il rabbinato di Milano. Una circostanza, questa, che ci legò subito. Lui ha fatto molto per la città e ci mancherà molto.

Progressista, modernista, liberal, “Papa mancato”: per Martini le definizioni si sono sprecate. Lei che l’ha conosciuto da vicino e le è stato amico, che idea si è fatto da non cattolico?

“Era un uomo che aveva molto senso di responsabilità, che non amava le formule ma la realtà così com’è, alla quale – diceva – bisogna dare risposte. Andava al di là degli schematismi e non aveva paura di dirlo. Prima della nostra fede, ce lo ricordavamo sempre lui ed io, abbiamo in comune il fatto di essere uomini, anche gli uomini di fede sono uomini. E questa è una cosa assolutamente ortodossa ma che non molti hanno il coraggio di affermare perché temono che, una simile affermazione, possa facilitare spinte centrifughe. Io direi che era un uomo moderno nel senso positivo del termine”.

Voi eravate anche amici: qual è il ricordo più affettuoso che serba di lui?

“È difficile, sa. Entrambi siamo un po’ timidi per cui non era facile esternare. Ma ci siamo subito ritrovati su determinati temi e poi… ci mettevamo d’accordo. Quando creò il gruppo “Teshuvà” partecipò una marea di gente, un pubblico molto qualificato, un momento molto “alto” dal punto di vista spirituale e religioso. Ricordo che io commentai un passo della bibbia ebraica e lui uno dei vangeli. E lui, prima di entrare nella sala, mi prese in disparte e mi disse: ‘Andiamo insieme e speriamo di avere successo’. Io lo rassicurai e lui aggiunse: ‘Ecco, questo noi dobbiamo cercare: coinvolgere le persone nella fede’”.

Ad unirvi, tra le tante cose, c’è questo aspetto del “ritorno a Gerusalemme” dopo la sua morte...

“Sì, lui aveva questo amore per Gerusalemme, quasi una fissa, tant’è che vi aveva comprato la sua tomba. Credo che, quando fu costretto a lasciare Israele a causa della malattia, abbia chiesto di essere sepolto in quella città. Ricordo con affetto che, quando ci vedevamo ed era prossimo ad un viaggio, mi diceva raggiante di felicità: ‘Sai, tra qualche giorno devo andare a Gerusalemme’. Ecco, lo voglio ricordare così, con quegli occhi buoni e felici di raggiungere la Terra Santa”.