«L’AUSTERITÀ uccide il lavoro»: in queste tre parole del segretario della Cgil Susanna Camusso può essere riassunta tutta la complessa questione che ieri ha portato in piazza milioni di lavoratori in 23 paesi europei (e particolarmente in quelli del Sud, i più colpiti). Quelle tre parole, però, sono anche un semplice slogan, una bandiera. E non vanno al fondo della questione.

D’ALTRA PARTE, si capisce che il segretario del più forte sindacato italiano, in un paese che sta per superare i tre milioni di disoccupati (disastro che abbiamo visto solo nell’immediato dopoguerra) non abbia tempo per tante sottigliezze: deve portare la gente in piazza e pretendere di essere ascoltata.
Però c’è una questione che nessuno può evitare: un paese che si sta avviando ad avere due mila miliardi di debito pubblico (contro 1.600 di Pil) può, onestamente, fare finta di niente e non cercare di registrare i suoi meccanismi di spesa? Qualcuno può pensare che si possa andare avanti come prima? Una svolta ci vuole.
E la svolta non può essere la mitica patrimoniale da mettere sui ricchi: se bastasse questo, tutto sarebbe molto più facile.

IN FRANCIA Hollande è partito con questa idea (far pagare solo ai ricchi), ma sta facendo retromarcia. I soldi dei ricchi non bastano. Purtroppo è accaduto che l’intera società italiana negli anni scorsi si sia abituata a vivere in un’abbondanza che non era reale. È duro ammetterlo, ma è così. E quindi bisogna fare dei passi indietro. Passi che hanno un costo sociale molto alto, forse enorme. Ma certo non possiamo gettare soldi dagli elicotteri per porre fine all’austerità: il nostro debito aumenterebbe ancora e non possiamo chiedere alla Bce di stampare continuamente moneta in una spirale senza fine (in Usa lo hanno fatto e sono nei guai).
Quindi è vero che l’austerità uccide il lavoro, ma si può anche dire che le nostre sciocchezze di ieri (e qui il sindacato non è proprio innocente) uccidono il lavoro di oggi.
Rimane, infine, il capitolo della violenza. Una violenza insensata e diffusa, figlia di una cultura approssimativa e sbagliata. Solo qui in Italia si ritiene che spaccando auto e vetrine (e teste di poliziotti) sia possibile ottenere qualche risultato. Ma probabilmente non si tratta nemmeno di questo: semplicemente il mondo giovanile è percorso da ansie spaventose e una piccola quota ritiene che «intanto» si può spaccare qualcosa per vedere se si ottiene un cambiamento. Ritengo che questa sub-cultura (cominciamo a spaccare qualcosa poi si vedrà) non sia patrimonio del mondo giovanile nel suo insieme. Quasi certamente siamo in presenza di gruppetti eversivi che altro hanno in mente, e che pensano di poter radere al suolo il sistema a colpi di spranghe e di mazze da baseball. Solo negli anni più bui del terrorismo qualcuno ha osato pensare qualcosa del genere.

di Giuseppe Turani