dall’inviato
RITA BARTOLOMEI

LONGARONE (Belluno), 7 ottobre 2013 - MA COM’È andata a finire? Cos’è diventato il Vajont, cinquant’anni dopo? «Chi c’era prova ancora rabbia, sarà così per sempre. L’onda lunga della strage non ha fine. Ma le nuove generazioni non ne possono più. I giovani, sulla frana, vorrebbero farci una pista da motocross». Giuliano Filippin accompagna ogni giorno i turisti sulla diga. Vuol dire lungo camminamenti sospesi a 261 metri e 60 sulla valle. Numeri, foto, lapidi. Dolore, inestirpabile. Si cammina sopra il bordo, in un ponte imbragato di rete metallica per attraversare la gola, da un punto all’altro. Dà le vertigini. Si cammina su un cimitero. Poi nel bosco, da dove è partito tutto. Nove ottobre del 63, in tv davano la Coppa dei campioni. Alle 22.39 la montagna frana nel lago artificiale e solleva un’onda di 230 metri che scavalca la diga. In pochi minuti è un disastro. Dino Buzzati lo racconterà così: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia». Ma la fatalità non c’entrava, la diga non si doveva costruire. L’onda polverizza Longarone, distrugge intere borgate lì vicino e uccide 1910 persone, tante non verranno mai ritrovate.
«Cos’è il Vajont oggi? Un monumento all’avidità e alla stupidità umana», traduce la guida, con durezza da montanaro. Dice anche: «Ci hanno sempre insegnato che la gente cammina e le montagne stanno ferme. Ma qui è successo proprio il contrario...». Sono giorni carichi di eventi e di visitatori. Non bastano i parcheggi per accogliere la folla che arriva qui da tutta Italia. Lungo i tornanti della strada che s’inerpica sui monti tra due regioni — la diga in Friuli, Lavarone a valle, nel Veneto del Piave — ci sono auto ovunque. E gruppi di alpinisti impegnati a fare roccia. C’è anche un’osteria chiamata diga del Vajont.

MA DOVE sono i segni dei morti? Bisogna cercarli con occhio attento, «perché qui non siamo a Napoli», quasi rivendica una giovane donna dai capelli bianchi, che ha contato troppi morti in famiglia e non ne vuole parlare. Le tracce delle vittime sono negli angoli che puoi vedere solo camminando a piedi. Ecco là sul bordo della strada una lapide della famiglia Filippin, erano in cinque, la più piccola aveva 12 anni. Qualcuno ha acceso un lumino.

SI FERMA una coppia di Bassano, Pietro e Annamaria. Lui guarda per terra, si vede ancora qualche pietra tra l’erba. Immagina: «Questo doveva essere il pavimento della cucina...». Più a valle sono ricordate altre due famiglie, ciascuna ha la propria edicola, in pietra e legno. E nella galleria subito prima della diga hanno dedicato una parete intera alla Spoon river del Vajont. Quella sera dal monte Toc si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia. La guida lo traduce così: «Se cento camion lavorassero giorno e notte, estate e inverno, Pasqua e Natale, senza sosta e senza sindacati, dovrebbero passare settecento anni prima di riuscire a portare via tutto». Ma cos’è, oggi, l’inferno del Vajont? Pietro di Bassano ci pensa un momento e lo dice in dialetto: «I morti son morti, per carità, ma quando sparisce la terra, il posto dove uno l’è nado, l’è un dolor... C’è gente che si è suicidata, per questo».

NON C’È un sentimento comune, non tutti sono entrati nelle associazioni dei superstiti. Lionello De Bona, 78 anni (foto in basso) , nel disastro ha perso la madre e il fratello, vive nelle case popolari di Longarone, qualcuno le ha ribattezzate il bunker, una colata di cemento armato. «Nessun rancore, per me il Vajont è un capitolo chiuso». Lo ripete anche a se stesso mentre apre la porta finestra che dà sul terrazzo, vista diga. Ormai non ci fa più caso. Longarone, tutto ricostruito, difficile ritrovarci l’anima del borgo montanaro. Il giovane sindaco Roberto Padrin alza le braccia: «Non si tocca più nulla, avete presente il patto di stabilità?». Piuttosto vorrebbe chiedere allo Stato di accollarsi le spese del cimitero monumentale: «Ci costa 50mila euro all’anno, Ciampi l’ha fatto monumento nazionale, è giusto che ci pensi Roma».

UN PRESIDENTE della Repubblica lo aspettano anche a Erto. Anzi, si dice Erto e Casso, un solo comune, due paesi storicamente rivali. Piccole comunità che combattono per non morire. Dodici anni fa hanno riaperto l’osteria del Gallo cedrone. Osvalda Pezzin, mamma di Massimo, il titolare, sospira: «Dopo agosto apriamo nei fine settimana. Finché non c’è neve...». Sul corso si apre qualche vetrina. Forse non basta per il futuro. Sicuramente lo pensa chi sfoga la sua rabbia su una facciata intera e scrive senza troppo riguardo alla forma, «Dio ci salvi dai sciacalli del Vajont».