di Pierfrancesco De Robertis

ROMA, 16 ottobre 2013 - OGNI anno è la stessa storia: arriva la finanziaria, si prospettano immancabili tagli al comparto sanitario e le Regioni iniziano a piangere miseria. Anche quest’anno di fronte al ministro Lorenzin è stata la stessa cosa. Senza rammentarsi, Errani e gli altri governatori, che la quota del finanziamento statale alle Regioni per la sanità (che secondo la disgraziata riforma del Titolo V voluta a maggioranza dal centrosinistra a fine anni Novanta non è più in capo allo Stato) è salita di anno in anno fino all’iperbolica cifra di oltre 110 miliardi. Una cifra monstre (basti pensare che di pensioni, di tutte le pensioni, lo Stato spende più o meno il doppio, ma quelli sono soldi che in qualche modo «restituisce» al lavoratore), la cui lievitazione è in parte dovuta al tasso di inflazione monetario, in parte a quella che gli addetti ai lavori classificano come l’«inflazione sanitaria», superiore a quella «classica», presente in tutti i paesi occidentali con un sistema sanitario pubblico «all’europea», ed identificabile con il maggior costo del progressivo invecchiamento della popolazione (curare un settantenne è dieci volte più caro che curare un ventenne), al naturale aumento del costo delle cure che sono sempre più specializzate, al sempre maggior numero di immigrati, che fanno tanti figli e versano bassi contributi. Per dire: ci sono studi seri secondo cui - incrociando dati Istat e del ministero della salute - di qui al 2030 la spesa sanitaria passerà dagli attuali 110 miliardi (circa) alla bellezza di 180 miliardi, con una incidenza sul Pil che schizzerà dall’attuale 6,76 per cento a oltre l’8 per cento. Un disastro.

IL PROBLEMA — il vero problema — è che le Regioni, titolari della protesta sanitaria, di fronte a tale dinamica chiara non hanno mai voluto affrontare la questione di una riorganizzazione della spesa e si sono limitate ogni volta a piangere miseria e a parlare di attentato alla salute dei cittadini. I motivi? Cento, ognuno diverso dall’altro. Dove si volevano proteggere le mille baronie universitarie senza sfoltire le cliniche (Lazio), dove l’ampio spazio concesso ai privati finiva per lasciare al pubblico solo i servizi più costosi (Lombardia), dove si sono creati buchi milionari nelle asl (Toscana), dove si moltiplicavano le assunzioni, dove semplicemente non si facevano i bilanci scritti e si rubava (Calabria). In linea di massima perché tagliare la spesa pubblica sanitaria per i politici locali vuol dire togliere amplissime fette di potere, e si sa che niente come la sanità è fonte di potere: posti negli ospedali per primari e infermieri, cure agli elettori che fanno felici loro e i loro parenti che al momento opportuno votano, possibilità di favori dai più piccoli ai più grandi (da una lista di attesa che si accorcia a un visita specialistica da trovare), alla costruzione di ospedali, alle forniture. Una grande macchina, che da una parte mangia i soldi e dall’altra concede ai politici locali una rendita di potere notevolissima. Perché tagliarla?
Il problema è che lo Stato, forse l’unico che in questa fase di vacche magre avrebbe la forza di fare qualcosa, ha le armi spuntate dall’autonomia regionale.

PRENDIAMO il caso dei costi standard, la famosa siringa che in una Regione pagano uno e in un’altra cinque. Perché non si è mai arrivati all’individuazione di un costo uguale per tutti? Quando all’alba della riforma del federalismo fiscale si parlò di costi standard (in verità furono anche approvati dei decreti attuativi, poi tutto è finito in qualche cassetto) si disse che il complesso dei risparmi con i costi standard (non solo sulla sanità) sarebbe stato di oltre 4 miliardi. Solo quelli della sanità sarebbero stati di quasi due. Adesso di quella siringa nessuno si ricorda più. Ma tutti piangono miseria.