Roma, 23 gennaio 2014 - Una volta qui si producevano aerei civili e militari, locomotive, vagoni ferroviari e gru: partì oltre un secolo fa, nel 1901, da quest’area di Reggio Emilia, il viaggio dell’Italia verso l’innovazione tecnologica, lo sviluppo economico e il progresso. Ma qui si scrissero anche altre pagine importanti della storia nazionale. Il 28 luglio 1943 nove operai vennero uccisi dai fascisti. Sette anni dopo, nell’ottobre 1950, iniziò la più lunga occupazione di una fabbrica mai avvenuta nel nostro Paese da parte degli operai a fronte di un piano di 2100 licenziamenti. La protesta durò un anno intero, periodo in cui gli operai produssero il trattore R60, per dimostrare che l’azienda poteva riconvertire la propria produzione da bellica a civile. Ma oggi, se si cammina nella vasta area delle ex Officine Meccaniche Italiane — più note come Reggiane — di tutta questa storia sembra essersi persa qualsiasi memoria. I grandi capannoni, una ventina, più tre palazzine che accoglievano gli uffici cadono a pezzi.

Dove si progettavano e si costruivano i pezzi della crescita economica del Paese e il futuro di tante famiglie — nel periodo di maggiore sviluppo le Reggiane contarono fino a 12mila persone — ora regna il degrado. Gli ex uffici sono diventati il dormitorio improvvisato di tanti stranieri rimasti senza lavoro e senza casa. Porte e finestre delle palazzine sono state divelte da chi voleva smontare l’alluminio e venderlo nel mercato nero dei metalli. Girando di stanza in stanza, si vedono i giacigli improvvisati: materassi sporchi, coperte buttate a terra, tavoli improvvisati con resti di cibo, abiti e scarpe. E poi cumuli di rifiuti lasciati dai senzatetto, bottiglie di vetro e di plastica, il tutto mischiato a ciò che resta degli uffici: scrivanie ammassate, vecchi progetti e insegne, cassettiere, blocchetti di ricevute... Almeno una trentina di persone la notte la passano qui, mentre di giorno si allontanano, per fare chissà cosa. Premuroso, ci accoglie come fosse lui il padrone di casa, il 36enne Aderrazek Abidi: tunisino, dorme qui da due anni. Accanto al suo letto c’è un quadretto con l’insegna delle Reggiane.

Indossa una tuta blu: da lontano può sembrare un metalmeccanico, un fantasma delle vecchie presenze che una volta si affollavano in questi luoghi. "Sono a Reggio dal 2007, ho fatto il muratore per sette anni, poi ho perso il lavoro. Non riuscivo più a pagare l’affitto. Ora mangio alla Caritas e dormo qui. Persino Fantuzzi mi conosce: quando passa di qua, ci salutiamo pure". Luciano Fantuzzi è l’attuale proprietario di quest’area, 104mila metri quadrati di capannoni coperti su un’area totale di 260mila. Dopo aver rilevato lo stabilimento nel 1992, lo ha venduto nel 2008 alla multinazionale americana Terex, che ha trasferito la sede e la produzione. Da allora tutto sta cadendo a pezzi, proprio di fianco al Tecnopolo, il capannone ceduto al Comune e trasformato nel centro destinato a ricerca e innovazione tecnologiche che di recente è stato inaugurato alla presenza del ministro alle Autonomie locali, il reggiano Graziano Delrio. Proprio dietro l’eccellenza del Tecnopolo, si stagliano i capannoni: ci sono cumuli di vecchi mattoni che qualcuno sta portando via, smontando a poco a poco le strutture e resti dei macchinari. Tanta polvere nel vuoto,poi murales di giganteschi volti che si affacciano perplessi sullo squallore, così come un elefante e un buddha coloratissimi. Mentre le corone posate durante l’ultima commemorazione dell’eccidio, rinsecchite, sembrano ricordare la gloria di un tempo che non c’è più.