di Pierfrancesco de Robertis

ROMA, 12 aprile 20134 - BASTA una foto per rappresentare un’epoca o una guerra, figurarsi se un’immagine non riesce a raccontare il legame di una vita. Cinque uomini in mutandoni bianchi, che seguono un altro poco più avanti. È il 1995 e Silvio Berlusconi ospita nella sua villa alle Bermuda il drappello degli happy fews. Nel gruppo dei primordi, Marcello Dell’Utri. Perché prima di Fede e Lele Mora, prima di Lavitola, di Verdini e di Ghedini, prima di tutti ci sono stati Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri. Già Adriano Galliani fu una conquista un po’ successiva, che arrivò alla corte del Cavaliere quando Berlusconi aveva già iniziato a occuparsi di tv.
Dell’Utri no, lui era già lì, metà anni Sessanta, dai tempi della Statale di Milano e del Torrescalla, la squadretta dell’hinterland milanese di cui Dell’Utri è allenatore e Berlusconi sponsor, e le prime foto che li ritraggono insieme fanno anche tenerezza. Bianco nero, pantaloni a zampa di elefante, basettoni, tanto odore di provincia buona che cerca di farsi.

«MERAVIGLIOSI quei tempi — ha ricordato qualche settimana fa Fedele Confalonieri in un’intervista — quando io, Dell’Utri e Galliani facevamo le due di notte nello studio di Berlusconi, e alle otto del mattino eravamo ancora lì».
Ed è di questo personaggio così eclettico, dalle sfaccettature incongruenti che Silvio Berlusconi fin dall’inizio non è mai riuscito a privarsi. Chiaro e scuro, diritto e rovescio, vuoto e pieno, in Dell’Utri c’è stato sempre tutto.
La squadra dell’Opus Dei da allenare a Roma e i mafiosi da frequentare a Palermo, i libri veri da collezionare e quelli falsi da smerciare, gli anni di galera da scontare e il laticlavio da senatore. Così è se vi pare. Molto siciliano.
Un rapporto con Berlusconi che non è più di amicizia, ma di sangue, una famiglia allargata.
Da quando nel 1965 Dell’Utri arriva a Milano e dopo la laurea trova un posto come segretario del piccolo imprenditore Silvio Berlusconi. Alla fine degli anni Sessanta Dell’Utri torna in Sicilia e riprende quei legami con i vertici della mafia che gli costeranno poi le condanne di oggi. Mangano, Cinà, Bontade. Dell’Utri in Sicilia (dove lavora in banca), Berlusconi a Milano. Poco tempo e il rapporto ricomincia, e ad Arcore arriva Vittorio Mangano. Dell’Utri scala posizioni in azienda, arriva al vertice di Publitalia e nel ’94 in due mesi mette a disposizione di Berlusconi la sua potenza di fuoco, e fa vincere le elezioni all’amico. Ma come Confalonieri, Bernasconi, Doris e Galliani non entra in politica. Certo, si fa eleggere alla Camera (nel ’96) ma lo fa solo — per sua stessa ammissione — per godere dell’immunità.
Il Palazzo non lo attira, non lo strega. Lì c’è Gianni Letta, c’è Cesarone Previti, bastano. Per lui c’è il sapere. Ci sono i libri, e in particolare quelli antichi, di cui è un cultore sensibile e raffinato.
Nel mondo berlusconiano del drive-in televisivo tutto tette, Dell’Utri è la faccia intelligente, quello che legge, che ama il teatro, che ascolta l’opera, che fa belle interviste, che scopre inediti a volte un po’ sbiaditi come i falsi diari di Mussolini da lui tutt’oggi dati per veri.
Silvio e Marcello, fino in fondo. Cinquant’anni insieme, e nello stesso giorno per entrambi si aprono le porte delle pena da scontare. Uno scappa, l’altro sceglie di restare. L’uno e il suo doppio.