Roma, 03 dicembre 2011 - PARE CHE AL CAIRO uno dei tanti effetti suscitati dalla “rivoluzione di piazza Tahrir” sia la moltiplicazione degli orti sui tetti. In preda ai tumulti, la capitale egiziana è stata messa a dura prova per gli approvvigionamenti alimentari, e chi ha potuto, ha messo in pratica un’idea antica almeno quanto Babilonia, la città dei giardini pensili. È un modo per tutelarsi da possibili penurie, ben conosciuto dalle popolazione urbane di tutto il mondo. Basta pensare all’epoca della seconda guerra mondiale. In Italia gli “orti di guerra” presero il posto di giardini e parchi pubblici; negli Usa i “Victory Garden” produssero il 41% degli ortaggi consumati nel paese; in Inghilterra la campagna “Dig for Victory” (zappa per la vittoria) portò alla coltivazione di di un milione 400mila appezzamenti di terreno... Sono memorie dolorose, ma testimoniano quanta ingegnosità, e quante risorse agricole si nascondano nelle città.
Oggi, con la recessione che incombe e spaventa, e coi mercati globali che spesso fanno crescere a dismisura i prezzi del grano e quindi del pane, mettendo alla fame milioni di persone nei vari Sud del mondo, ecco che il concetto di “sovranità alimentare” esce dai circuiti degli specialisti, entra nelle rivendicazioni dei movimenti contadini e viene scoperto in ambienti insospettabili, perfino in città. Prende quindi forma l’idea che vi sia un diritto a disporre di cibo sano, prodotto in base alle esigenze locali, e non alle pretese delle dieci grandi industrie alimentari che controllano il 67% dei brevetti sulle sementi, l’89% delle forniture di pesticidi e quindi la produzione agricola mondiale. Franca Roiatti, autrice di una ricchissima ricognizione sulle mille forme di autoproduzione, di agricoltura urbana e sociale sparse per il mondo, la definisce “La rivoluzione della lattuga”, titolo del suo libro uscito per Egea.

LA CURA PRIVATA e comunitaria degli orti, gli acquisti collettivi e l’accorciamento delle distanze fra produzione e consumo, stanno trasformando gli stili di vita di milioni di persone. In tutto il mondo vi sono città che ridefiniscono i piani urbanistici puntando all’incremento delle aree coltivabili.  A Detroit, la città dell’automobile, annichilita dalla crisi esplosa nel 2008, non si parla più di “aree abbandonate” per definire le fabbriche dismesse e i terreni circostanti: si preferisce parlare di “spazi aperti”, dove si stanno insediando innumerevoli “community garden”, cioè orti sociali. E’ un cambiamento di mentalità che tutti i sindaci del mondo potrebbero (e forse dovrebbero) imitare. Gli studi dell’Università del Michigan indicano che a Detroit sarebbe possibile produrre fino al 42% della frutta e fino al 72% della verdura che una popolazione di 700mila abitanti dovrebbe consumare. E’ quanto basta per trasformare sia il paesaggio urbano sia la vocazione di una città in crisi irreversibile. A patto, però, che cambino anche le abitudini alimentari dei cittadini e cresca il consumo di vegetali. Ecco un altro elemento chiave che spiega l’esplosione dei micro orti: i disastrosi effetti di un’industria del cibo che ha colonizzato i gusti e standardizzato i cibi, spingendo verso iperconsumi di carne (120 chili pro capite all’anno negli Usa, 74 di media in Europa, 91 in Italia). Negli Usa ormai un adulto su tre è obeso, e così in Messico; in Europa il tasso di obesità è raddoppiato in 20 anni...

UNA VIA per cambiare questo andazzo è proprio la “rivoluzione della lattuga”, quindi l’agricoltura biologica di piccola scala, l’espansione dei mercati contadini e di quelle associazioni fra coltivatori e consumatori chiamate Csa negli Usa, Amap in Francia, Gas (gruppi di acquisto solidale) in Italia. Le persone cercano un rapporto più diretto col cibo e con la terra e stanno scoprendo che si può fare.
La Fao, che nel 2011 ha lanciato un piano di sostegno ai piccoli coltivatori nell’intento di “riportare la natura in agricoltura”, stima che in un micro orto di un metro quadrato si possono produrre 30 chili di pomodori all’anno, 36 cespi di insalata ogni due mesi, un centinaio di cipolle in quattro mesi. E’ una bella sfida per tutti gli orticoltori non professionali e per tutte le città che vorranno porsi un nuovo - in realtà antichissimo - obiettivo: contribuire in modo significativo al proprio approvvigionamento alimentare. A Toronto già oggi il 40% degli abitanti coltiva l’orto. In Italia, secondo l’Istat, la percentuale di persone che cura un orto o un giardino è passata dal 37 al 42 fra il 2006 e il 2009 e Nomisma stima che almeno un milione di italiani abbiano l’orto; si arriva a sette milioni includendo chi fa crescere insalate e pomodori su balconi e terrazzi... Un orto - forse - ci salverà.