La morte di Gabo colpisce tutti, anche quelli che non amano la letteratura sudamericana, il realismo magico che avvince tutti gli autori  del grande continente che parla e scrive in spagnolo e in portoghese. Realismo magico che porta a effluvi di parole che raccontano storie che spesso si ripetono su se stesse, si avvolgono in un affresco di vite perdute recuperate, o di vite  nelle quali c'è tutto il dolore e tutta la felicità di questo mondo. Dolore e felicità che si mischiano e risorgono proprio con quella scrittura così barocca che emoziona o che, e ne ho sentiti tanti, stanca. Ma Gabriel Garcia Marquez non può stancare, la sua è una vita che non ha avuto cadute fino a quando la malattia non lo ha colpito. E la malattia più grave è stata, per i suoi appassionati lettori, l'alzheimer. Ne era stato colpito nel 2008 e ne aveva bloccato la creatività. Il suo ultimo lavoro, “Memoria delle mie puttane tristi”, era l'ennesimo racconto tra fantasia e realtà nel quale, quasi bilancio di una vita, la ricerca del piacere fatta attraverso l'inferno che poteva benissimo somigliare al paradiso, per lui comunista fino all'ultimo e fino al midollo, appassionato seguace dei Castro e dei regimi ex sovietici nonostante il grande e vecchio amico Plinio Apuleyo Mendoza cercasse di dissuaderlo, di fargli capire che la democrazia era un'altra cosa. Ma per lui che aveva vissuto da giornalista  l'avvento della dittatura di destra in Venezuela, non c'era ragione di negare quello che aveva sempre pensato politicamente.

È morto in Messico, dove viveva da tempo. Aveva ritirato nel 1982 un meritatissimo premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno segnato più di una generazione, che ha vissuto con illusione a Macondo, che in fondo era la sua città natale, Aracataca, appunto la città della magia, la città dove  si compivano i riti di una vita segnata da mille incontri e anche da mille delusioni. “Cent'anni di solitudine” (1967) è la storia della Colombia e del mondo, in fondo, vista attraverso la famiglia Buendia, in pratica buon giorno. Gli eroi sono quasi ignari di esserlo, ma sanno tutto, della vita e della morte, senza prosopopea, ma al tempo stesso senza essere destinati ad alcuna vittoria. E il narratore è esterno e  dentro a  ognuno di loro, si diverte a raccontare i fatti, ma al tempo stesso dimostra di saperne già l'evoluzione. Una scrittura corale, effervescente e stilisticamente originale, romantica ed epica, che ricorda un poco i grandi del passato proiettandosi in un futuro molto distante da noi.

“L'amore al tempo del colera”, “L'autunno del patriarca”, “Il generale nel suo labirinto” sono alcuni degli altri titoli imprescindibili di Marquez, oltre ai racconti  e ai discorsi. Ma un libro che ricordo con particolare passione è “Nessuno scrive al colonnello”, del 1961, nel quale Marquez analizza il rapporto fra due anziani coniugi, le speranze dell'uno che non si rassegna alla fine e cerca nella metafora del gallo da combattimento il suo appiglio alla vita, e la moglie malata che combatte la fiducia del marito. Una scrittura intensa, bellicosa, ma triste, anch'essa, e aperta a qualsiasi conclusione. Siamo anche qui a  Macondo. Macondo, il mondo che basta e avanza a Marquez e alla sua voglia di raccontare ed essere ricordato. Come lo sarà, anche da chi, magari, non ama fino alla fine  il realismo magico sudamericano.

di RICCARDO JANNELLO