Roma, 7 febbraio 2014 - Questa volta, però, lui e i suoi associati si stanno arrabbiando davvero. La sensazione è che qui non stia succedendo niente. Niente di positivo. Letta parla, parla, promette, ma alla fine la ripresa è talmente debole che persino osservatori smaliziati (e non preconcetti) come Romano Prodi affermano di non vedere un tubo. Vedono un Paese che ristagna. La sensazione è confermata dalle analisi fatte dai macroeconomisti. Forse gli esperti di Oxford economics sono un po’ troppo pessimisti, ma vedono per l’Italia nel corso di quest’anno una crescita di appena lo 0,3 per cento. E vedono, sempre nel 2014, il picco della disoccupazione, che dovrebbe arrivare al 12,7 per cento. A questo si aggiunga che un quarto circa dell’industria italiana ha spento le luci e ha tirato giù la saracinesca.

Ma perché l’Italia ristagna e perché Letta sbaglia? La risposta non è difficile. Bastano pochissimi numeri. La domanda interna nel 2013 (rispetto al 2012) è diminuita del 2,6 per cento. Gli italiani, cioè, hanno chiesto il 2,6 per cento di beni in meno. Nello stesso periodo la domanda estera è cresciuta dell’1,1 per cento. La conclusione è ovvia: la pochissima ripresa che abbiamo ci viene da fuori, dagli altri. Ci viene da una sistema produttivo, quello italiano, umiliato e maltrattato dalla politica, ma che risulta essere ancora vivo. Pochi esempi. Nella meccanica non elettronica (dati Edison-Gea) il nostro attivo commerciale è di 16,4 miliardi e, cosa forse difficile da credere, siamo i terzi esportatori dopo Germania e Giappone. Nei prodotti in ferro e acciaio il nostro attivo commerciale è di 3,5 miliardi di euro e siamo secondi dopo la Cina. Da tutto questo si ricava che l’industria italiana, benché ammaccata, è ancora una forza seria con una reputazione sui mercati internazionali. Non siamo capaci di fare solo dei bei vestitini, ma anche delle macchine di ferro e acciaio che il mondo ci compra. Ma allora di cosa si lamenta Squinzi? È semplice. Andrà a dire a Napolitano che, avanti di questo passo, nei prossimi cinque anni rischiamo di crescere in media dello 0,5 per cento. Il Paese, cioè, rischia di frantumarsi, non si può continuare a girare intorno a un palo senza prendere mai una direzione. In economia, stando fermi, alla fine si muore. Il momento di muoversi, di tirare fuori un po’ di coraggio è adesso.