PRENDETE un ragazzo in fila a un centro di primo impiego e provate a chiedergli che cosa pensa della discussione conclusa alla Camera sul decreto legge Poletti. «L’importante è lavorare», vi risponderà. Andate da quello che sta in coda dietro di lui e la replica sarà più o meno analoga. Perché le regole contano, lo spessore delle buste paga anche, ma alla fine alla gente interessa non restare con le mani in mano. Ai ragazzi e ai genitori di quei ragazzi, che il più delle volte vivono con un frustrante senso di impotenza il dramma dei figli, un dramma che non avevano messo in preventivo. Il dramma dei grandi che non riescono ad aiutare i più giovani è una delle trame più angoscianti che scorre nel sottofondo della nostra società, chiedere per credere a tanti padri e madri. Fa quindi bene il premier a spingere sull’acceleratore, perché quella del lavoro è la madre di tutte le riforme, e pace se in tempo di campagna elettorale ognuno vuol fare campagna elettorale. Magari tra un mese, a urne chiuse, gli animi saranno più sereni, la necessità di piantare bandierine non sarà così impellente e una composizione diventerà più facile.

È CHIARO che l’impuntatura degli alfaniani sul numero dei contratti, sulla formazione da togliere (giustamente) alle Regioni che in materia hanno combinato poco e male, o forse più ancora su quella che viene descritta come «acasualità» (cioè la possibilità di non rinnovare i contratti senza specificare bene le motivazioni) è una manovra che risente della necessità di marcare il territorio in vista del 25 maggio. Ma l’importante per tutti sarà avere presente il primo interesse dei giovani, cioè lavorare, e per questo gli uomini di Alfano sono in prima linea. La mediazione di Poletti è quella giusta, perché è uomo concreto, pragmatico, poco ideologico, figlio di una terra e di una tradizione non ideologica, lui stesso — padrone di sinistra — compromesso vivente tra il diritto e l’opportunità. Perché è proprio la parola «opportunità» che in un momento economicamente difficile come questo dev’essere posta in cima alla proposta che la politica rivolge ai giovani. Lo vogliono le imprese, che in fondo di un lavoro di qualità sono le prime ad avvantaggiarsi, lo desiderano i ragazzi, almeno quelli che hanno voglia di darsi da fare.
La peggior cosa per loro è sentire la frustrazione di non poter dare fondo a tutte le proprie energie. Le battaglie condotte solo in nome dei «diritti» rischiano di essere ideologiche e soprattutto sganciate dalla realtà. La crisi morde, non passa, e i giovani chiedono mezza tutela in meno e dieci opportunità in più.