{{IMG_SX}}Lhasa, 14 marzo 2008 - Il Tibet come la Birmania. I monaci sono di nuovo protagonisti delle proteste contro un regime comunista e obiettivo della repressione poliziesca. Da cinque giorni la regione autonoma occupata da Pechino nel 1949, e dalla quale il Dalai Lama prese la via dell'esilio dopo la sanguinosa rivolta del 1959, vede le prime manifestazioni e marce dal 1989, l'anno dell'imposizione della legge marziale nella regione e della repressione di Tienanmen.

 

Le vie e le piazze di Lhasa, la capitale del Tibet, sono diventate teatro di scontri con la polizia in cui sono rimaste ferite decine di persone, al quarto giorno di manifestazioni indette per ricordare quanto avvenuto cinquanta anni fa. A Lhasa, secondo fonti diplomatiche statunitensi, vi sono state anche sparatorie. Secondo quanto afferma Radio Free Asia almeno due persone sarebbero state uccise durante gli scontri.

 

I monaci non hanno voluto perdere l'occasione dei Giochi Olimpici, che cominceranno a Pechino tra cinque mesi, per far udire la loro voce, la protesta era iniziata lunedì scorso con la marcia di 500 religiosi partita dal monastero di Drepung.

 

Alla guida di 400 manifestanti, i monaci hanno di nuovo sfidato oggi l'esercito cinese, che intanto aveva cinto d'assedio i tre grandi monasteri di Lhasa. A riferirne era stata la 'Campagna internazionale per il Tibet': «Lhasa sta vivendo momenti di paura e tensione», ha detto una portavoce dell'ong. Insieme ai monasteri di Ganden, Drepung e Sera, i «tre pilastri» del Tibet, altri due sono stati vietati ai turisti. In quello di Sera i religiosi hanno continuato uno sciopero della fame per protestare contro l'assedio militare mentre altri due monaci, secondo Radio Asia Libera hanno tentato di uccidersi «per disperazione».

 

A Lhasa vi sono stati episodi di violenza contro l'etnia Han, preferita nella distribuzione dei benefici dalle autorità cinesi, che spesso ne hanno favorito l'immigrazione per riequilibrare la presenza dell'etnia tibetana e della minoranza Hui. La protesta dei monaci è diventata l'occasione per l'esplosione della rabbia delle minoranze invise a Pechino.

 

Diversi negozi sono stati bruciati nel mercato Tromsikhang mentre blindati presidiano l'area attorno al Palazzo Potala, una volta residenza invernale del Dalai Lama. Dieci monaci sono stati arrestati.

 

I monaci si sono messi in marcia anche a Xiahe, dove un corteo di 200 persone è stato fermato dalla polizia.
Il governo tibetano in esilio ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Il primo governo europeo a esprimere «preoccupazione» è stato quello britannico. «La situazione dei diritti umani in Tibet e materia di discussione costante con le autorità cinesi», ha spiegato una portavoce del Foreign Office.

 

Il Dalai Lama, il leader spirituale dei buddhisti tibetani, in esilio dopo l'occupazione cinese della regione himalayana, ha esortato il governo di Pechino a fermare l'uso della forza contro i manifestanti a Lhasa. «Queste proteste sono la manifestazione di un profondo risentimento del popolo tibetano verso l'attuale amministrazione», si legge in una nota diffusa da New Delhi, «Faccio quindi appello alla leadership cinese affinchè metta fine all'uso della forza e affronti attraverso il dialogo questo risentimento che cova da molto tempo».

 

Anche la Casa Bianca è intervenuta con una nota letta dal portavoce Gordon Johndroe, in cui si afferma che «Pechino deve rispettare la cultura tibetana e la loro società multietnica». Il portavoce ha aggiunto: «Ci dolgono le tensioni tra i gruppi etnici e Pechino. Il presidente ha più volte detto che Pechino deve avviare un dialogo con il Dalai Lama». Proprio nei giorni scorsi gli Stati Uniti tolsero la Cina dalla lista nera dei primi dieci Paesi che violano i diritti umani.

 

 

LA FARNESINA

''Si registrano manifestazioni anche violente e scontri a Lhasa. Si sconsigliano, al momento, viaggi in Tibet e in particolare a Lhasa, fino al ristabilimento di condizioni di normalita'''. Lo si legge nella sezione 'Avvisi particolari' del sito www.viaggiaresicuri.it, curato dall'Unita' di crisi della Farnesina.

 

''Ai connazionali - continua l'avviso - che dovessero trovarsi in loco si consiglia di evitare i luoghi di assembramento, di usare la massima cautela e di segnalare la propria presenza all'Ambasciata d'Italia a Pechino (numero di emergenza 008613520652007, e-mail: [email protected]) e all'Unita' di Crisi del Ministero degli Affari Esteri (0039 6 36225, e-mail: [email protected])".

 

La Farnesina ha comunque reso noto che gli italiani che si trovano a Lhasa stanno "bene". L'Unità di crisi del ministero e la l'ambasciata italiana a Pechino "sono in stretto contatto" con i connazionali che si trovano nella città dove si sono verificati gli scontri tra la polizia e i monaci tibetani. Al momento si ritiene che siano circa una ventina gli italiani nella capitale Tibetana