Port au Prince (Haiti), 1 aprile 2010 - Hanno terminato il reimbarco di tutti i componenti la «missione Italia», hanno sbarcato l’ultimo paziente dell’ospedale di bordo — una ragazza cui due giorni fa è stata evitata, grazie alla camera iperbarica, l’amputazione di una gamba — e regalato agli haitiani tutto quello che poteva essere lasciato sul posto. Missione compiuta, ieri la portaerei Cavour ha salpato verso l’Italia, dove sarà entro due settimane circa.
 

E tutti i 1100 volontari a bordo — 882 dell’equipaggio, il resto delle varie squadre interforze che hanno lavorato per due mesi tra le rovine del sisma del 12 gennaio — tornano a casa con l’orgoglio di chi ha dato molto. E di chi ha la sensazione di aver compiuto anche qualche miracolo. Al comando del Cavour, il capitano di vascello Gianluigi Reversi, 46 anni da Roma, parla prima di tutto di quanto hanno fatto anche «gli altri» della missione tricolore.
 

Comandante Reversi, chi sono «gli altri»?
«Sono i tanti italiani, militari e civili, che abbiamo visto in questi tre mesi tra le macerie. Protezione civile, medici volontari, esercito con alpini e genio, carabinieri, aviatori, operatori della Croce Rossa, vigili del fuoco: abbiamo costituito un vero e proprio ‘network Italia’ che ha dimostrato non solo efficienza, ma anche spirito di adattamento e cuore».
 

Anche i 'marines' italiani del San Marco si sono dati molto da fare.
«Solo un episodio, per dare l’idea. I ragazzi del San Marco sono riusciti ad arrivare via terra a un villaggio sperduto a Nord di Haiti, dove non ce l’avevano fatta nemmeno gli elicotteri. Quando la squadra italiana si è fatta largo tra le capanne, li hanno letteralmente coperti di fiori».
 

Il Cavour costa circa 100mila euro al giorno: ne è valsa la pena?
«Premesso che i costi della nave non sarebbero stati certo azzerati anche rimanendo in Italia o facendo addestramento in altre aree, dal punto di vista sia umanitario sia di riconoscimento meritato dall’Italia, ne è certamente valsa la pena. Le fornisco pochi numeri: abbiamo avuto a bordo, solo per le emergenze mediche, una media tra 65 e 100 feriti da curare, più un altro centinaio nei presidi medici realizzati a terra. Complessivamente, i nostri sanitari hanno effettuato 1241 trattamenti, di cui circa 400 su bambini. La nostra Tac ha salvato decine di vite, anche perché era l’unica funzionante ad Haiti, come del resto la camera iperbarica di bordo. Ci siamo serviti anche del collegamento di telemedicina con l’ospedale militare del Celio, che ci ha fornito consulenze preziose. Ma anche fuori dal campo medico, l’intervento è stato più che prezioso: i mezzi del Genio hanno rimosso macerie, riaperto strade, bonificato scuole per 9500 metri cubi di materiale spostato. E’ stato grazie a loro che il centro della capitale è stato riaperto al traffico, anche delle ambulanze. La scuola delle Piccole Sorelle del Vangelo è stata riaperta al centro di una bidonville disastrata grazie all’intervento italiano e alle tende sistemate dalla nostra Protezione civile diretta da Luigi D’Angelo. I nostri elicotteri sono rimasti in funzione quando ormai erano spariti quasi tutti gli altri».
 

Comandante, qual è stato il momento più toccante?
«Ogni giorno ha avuto i suoi momenti di commozione e orgoglio. Ma forse sceglierei l’arrivo dei chirurghi di Operation Smile: abbiamo avuto l’onore di vedere bambini con visi deformati tornare a guardarsi allo specchio e sorridere per la prima volta nella loro vita».
 

E quello più difficile?
«Vorrei che nessuno ci fraintendesse, ma il momento più difficile è questo, in cui stiamo per salpare e tornarcene a casa. Perché abbiamo fatto molto, ma ci sarebbe ancora da fare tanto, tantissimo, in uno standard di vita che è lontano mille miglia dal nostro».