Eliminiamo subito un equivoco. I media che trasmettono dal Cairo non ci parlano dell’Egitto. Ci parlano del Cairo. Voglio dire che la protesta non coinvolge l’intero, immenso Paese agricolo e i suoi contadini, ma i giovani e la classe media della capitale.

La grande maggioranza della popolazione ne è estranea. Sono i poveri, coloro che vestono la tradizionale djellaba e che vivono grazie al pane ampiamente sovvenzionato dal regime di Mubarak. Costoro sanno bene che l’Egitto è il più grande importatore di grano. E sanno che questo grano è pagato dagli americani. Prova ne sia che mentre dallo scorso ottobre il prezzo del grano è aumentato del 17 per cento, quello del pane razionato in Egitto è rimasto pressoché inalterato.

Come meravigliarsi che, a dispetto di quanto vediamo in televisione, continuino ad appoggiare Mubarak? Un nuovo regime meno repressivo potrebbe sospendere i sussidi, mentre uno più islamico perderebbe gli aiuti americani. Di qui la prudenza dell’Egitto rurale e l’ostilità verso i manifestanti del Cairo.

L’amministrazione Obama e i governi europei farebbero bene a tenere presente questa realtà nelle loro reazioni. Non lo fanno. E non lo fanno perché ancora una volta sono le élite intellettuali a condizionarli e a unirsi allo slogan: via Mubarak. Pericolo di un’involuzione fondamentalista? Nemmeno per sogno. L’opposizione sarebbe ‘moderata’. Moderati sarebbero anche i Fratelli musulmani, salvo dimenticare che la Ilkhwan (come si chiama il movimento) è la madre della palestinese Hamas, la quale conquistato a Gaza il potere con elezioni ora rifiuta di tenere nuove elezioni.

Obama dice no a Mubarak e alla sua intenzione di andarsene fra otto mesi prima di nuove elezioni. Il presidente egiziano — secondo quello americano — dovrebbe dimettersi subito. E’ un grave errore, più o meno come fece Carter nel 1979 in Iran. Al fronte moderato bisogna lasciare un tempo sufficiente a organizzarsi, perché altrimenti a vincere le elezioni sarebbe la Ilkhwan, l’unica formazione politica organizzata.
Se Mubarak scomparisse subito il risultato sarebbe un Egitto anarchico o islamico. O entrambi, sino a che non emergesse una nuova dittatura.
Non è un caso se dal Marocco all’India non esista alcuna democrazia tolta quella eretta dagli americani in Iraq. L’Islam rifiuta qualsiasi governo che non sia espressione della legge di Allah.

Gli Usa rischiano molto. Ma l’Europa rischia ancora di più. Se l’Egitto cadesse nell’anarchia o diventasse un secondo Iran, ne deriverebbero danni politici e economici. Sui primi penso siamo tutti d’accordo. Quanto all’economia, basti pensare che si bloccherebbero le esportazioni e gli investimenti, soprattutto nel turismo. Niente più bikini a Sharm el Sheikh con la Ilkhwan al potere.

L’Europa conoscerebbe una nuova, massiccia invasione di profughi. E Israele si ritroverebbe ancor più isolato. Minacce militari comunque non ne vedo. L’esercito egiziano è male equipaggiato. Se perdesse le forniture americane, avrebbe bisogno di almeno dieci anni e di 20 miliardi di dollari prima di recuperare.