di PATRICK COLGAN

LUNGO il mare c'è un grande vuoto. Non ci sono più le barche trascinate dall'onda terribile in mezzo ai campi, non ci sono più le macerie, non ci sono più nemmeno le case. Ma a Yuriage, una piccola città sulla costa orientale del Giappone spazzata via dal terremoto e dallo tsunami dell'11 marzo 2011, in mezzo a erbacce e pini secchi ci sono persone al lavoro. Scavano nella terra incrostata di sale, la setacciano. Cercano oggetti, frammenti di ossa, qualsiasi indizio che parli di uno dei 2.636 dispersi che mancano all'appello in tutto il Giappone nord orientale, più di 40 solo a Yuriage. È una ferita ancora aperta a distanza di tre anni, ferita che divide le famiglie delle 15.884 vittime accertate da chi non ha nemmeno una tomba su cui piangere.

Le ricerche ufficiali, quelle promosse dalle istituzioni, si sono fermate in molte zone e vengono riprese solo sporadicamente. Ma l'associazione Step - che in inglese significa passo, come il passo in avanti - non si dà per vinta. «Raccogliamo firme per chiedere al Comune di continuare le ricerche - ci spiega Hiro, ma non è il vero nome - perché crediamo che chi ha sofferto tanto abbia bisogno di un corpo, di una certezza, per chiudere questo capitolo e guardare avanti». Ad aiutare Step, e altre associazioni sulla costa, ci sono volontari provenienti da tutto il Giappone. Arrivano nei weekend. Scavano nei fossi, nei canali, in tutti i punti in cui qualcosa può essere passato inosservato. Ogni giorno si fanno ritrovamenti: un cucchiaio, una forchetta, un orologio, il brandello di un vestito. «Tutto viene confrontato con un archivio - continua Hiro - con i dati delle persone scomparse: cosa avevano con loro, come erano vestite. Ma non tutti accettano di parlarci di chi hanno perso, c'è chi si chiude nel dolore».

I casi di successo finora sono stati pochi, ma il lavoro va avanti. I volontari di oggi arrivano da Tokyo (360 chilometri a sud ovest), sono di tutte le età, riuniti in un'associazione che si chiama Tvt: «Ci organizziamo via Facebook - spiegano - e la risposta è incredibile, sono tantissimi a voler partecipare, anche se il lavoro è duro. C'è gente che viene più volte, anche tutti i weekend».

Poco più a sud, a Watari, il mercato del pesce è stato ricostruito con alcuni prefabbricati. Uno dei pescatori, Takahashi Tsutomu, che qui tutti chiamano 'Ben chan', racconta come tutto è cambiato: «Un tempo avevamo dieci pescherecci, ne sono rimasti tre - racconta - . Fra pescatori dobbiamo fare i turni per usare le barche. Ora c'è molto più pesce e i pesci sono più grandi, forse perché per due anni nessuno ha pescato. Ma alle volte dobbiamo buttare via quello che abbiamo preso - dice con rabbia - perché non passa i controlli della radioattività». Non c'è giorno in cui non pensi a quell'onda spaventosa che si è portata via una parte della sua vita: «Facevo volontariato, andavo a trovare le persone anziane - racconta - Quando si è saputo che arrivava lo tsunami ho subito pensato a due persone che da sole non potevano uscire di casa. Ho tentato di raggiungerle, ma non ho fatto in tempo perché è arrivata l'acqua».

Soltanto poche famiglie sono tornate dopo lo tsunami. Ben chan ha riparato la sua casa, usando gli aiuti e spendendo tutti i suoi risparmi: «La mia casa è qui - dice - Ma capisco anche chi non è tornato: vive in case provvisorie, vicino a servizi e supermercati. Qui, invece, non c'è più niente. Non ci sono più nemmeno i negozi. È tutto da ricostruire».

LA SPERANZA è legata al ritorno della vita. Lo scorso autunno a Watari è stata organizzata una festa. Sono arrivate centinaia di persone, anche dalla vicina Sendai, la città più grande della regione: «I pescatori hanno offerto zuppa di pesce e dalla città di Date, a nord, ci hanno mandato in regalo 500 capesante sono finite tutte. È stato bello». Gli chiediamo se spera in un futuro migliore. Sorride: «Non spero in un futuro migliore, lo renderò migliore».