Roma, 14 maggio 2013 - La certificazione relativa alla sostenibilità del pescato potrebbe essere inaffidabile. E' quanto sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista "Biological Conservation", secondo cui tale certificazione sarebbe accordata anche ad aziende ben poco attente al rispetto della biodiversità.

Sotto accusa è finito il Marine Stewardship Council (MSC), il più importante ente certificatore a livello mondiale, che controlla qualcosa come l'8% di tutto il pescato del pianeta, pari a un valore di 3 miliardi di dollari.

Guidati da Claire Christian e Jennifer Jacquet, i ricercatori hanno messo in evidenza alcune criticità legate al rilascio della certificazione. Prima fra tutte, l'eccessiva discrezionalità lasciata agli ispettori - appartengono ad un organismo terzo - nel determinare se una impresa rispetta o meno le tre prescrizioni dell'MSC: sostenibilità della pesca, impatto limitato sugli ecosistemi marini, esistenza di regole efficienti che presiedono alla gestione delle attività di pesca.

Nei fatti - sostiene la ricerca - le valutazioni fornite dagli ispettori si sono dimostrate discordanti tra loro, con il risultato che l'attestazione è stata spesso assegnata ad aziende ben poco sostenibili dal punto di vista ambientale.

<Come nel caso di un'impresa canadese nelle cui reti sono finiti, oltre a 20mila esemplari di pesce spada, 100 mila squali, 1.200 tartarughe marine e 170 tartarughe liuto. Tutte specie considerate in pericolo dai principali organismi internazionali e per questo protette - spiega Ilaria Ferri, direttore scientifico dell'Enpa -. Ebbene, nonostante questa attività che non stento a definire "predatoria", la ditta canadese si è vista accordare la certificazione di sostenibilità. Non si tratta quindi di una posizione meramente etica o animalista la nostra, ma di una argomentazione basata su ricerche e principi scientifici. Ecco perché non ha senso e trovo assai grave che numerose associazioni ambientaliste promuovano la pesca sostenibile>.

Dalla sua istituzione, nel 1997, l'MSC ha dato il proprio placet a ben 170 ditte, 19 delle quali sono successivamente finite sotto accusa per la loro attività e 18 di loro si sono viste ritirare la certificazione. <Se a questo aggiungiamo che vengono spesso definite come sostenibili pratiche che non lo sono affatto, come nel caso della pesca del krill in Antartide, emerge un quadro molto preoccupante>, prosegue il direttore scientifico della Protezione Animali che conclude: <L'unico modo veramente efficace, che non teme verifiche e controprove, per tutelare le specie a rischio, per proteggere la biodiversità del mare, per non violare i diritti di altri esseri viventi, è quello di non catturali né per fini alimentari né per compiacere l'industria della cattività proclamando una moratoria globale. Ed è proprio questo ciò che chiediamo con la nostra campagna “Salviamo il Mare” (http://www.enpa.it/it/salviamo_il_mare/index.html)>.
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