di Francesco Ghidetti
Firenze, 7 giugno 2013 - Il primo animalista della storia d'Italia? Non ci crederete mai. E' Giuseppe Garibaldi, il leggendario Eroe dei due mondi, il "campione" dell'italianità e della lotta contro le ingiustize ovunque fossero e sotto qualunque aspetto apparissero.

Lui, che volle l'abolizione della schiavitù. Lui, che si batté strenuamente e per tutta la vita contro il lavoro minorile. Lui, che si professava socialista. Lui, che voleva dare il voto alle donne già alla fine dell'Ottocento. Un uomo, insomma, che appieno aveva assorbito gli insegnamenti dell'unica, vera grande Rivoluzione della storia: la Rivoluzione francese.

Tra gli autori preferiti del Nostro (il quale, credeteci, era tutt'altro che un avventuriero tutto "cappa e spada") c'erano Voltaire e Rosseau. Focalizziamo l'attenzione sul secondo. Il filosofo considerava la natura "amica" e "buona". E per Garibaldi le pagine di Rousseau erano una vera e propria palestra di pensiero.

Due punti su tutti lo colpirono, assai probabilmente: l'esaltazione della semplicità dei costumi dell'uomo a contatto con la natura senza ricchezza e senza lusso e, soprattutto, la vita campestre, patriarcale, diciamo così. Non è casuale, insomma, che di fatto Caprera sia stata una specie di comune dove l'agricoltura e il lavoro manuale, artigianale erano tenuti in massima considerazione. Dato questo quadro (che avrebbe bisogno di ulteriori approfondimenti) non è difficile passare alla fase successiva e centrale per il nostro racconto. L'animale non era uno strumento, un mezzo, una "cosa", ma un essere vivente e pensante spesso assai più amabile dell'uomo.

La prima cosa bella di Garibaldi la ritroviamo, occhio alla data: marzo 1833, sulla nave "Clorinda". Garibaldi è a bordo e si sta per festeggiare la Pasqua. Ma lui rifiuta, unico dell'equipaggio, di mangiare l'agnello perché, dice, io l'ho allevato, è diventato parte di me e non posso certo ucciderlo e mangiarlo.

E ancora: che cosa dire della cavalla "Marsala"? E' sepolta a pochi metri dalla tomba dell'eroe a Caprera. Una giumenta bianca che si era portato dietro dalla Spedizione dei Mille assieme a uno stallone, sottratto ai soldati napoletani, cui aveva dato il nome di "Borbone".

La giumenta invecchia con lui, si potrebbe dire, quando sopraggiunge il momento fatale. Ella muore, Garibaldi non sa darsi pace, piange, impreca, tenta di farla riavere facendole bere vino della sua terra, il Marsala, appunto. Tentativo ingenuo, certo. Eppure rivelatore dell'amore profondo che aveva per gli animali.

Garibaldi addirittura dettò un'epigrafe per la povera giumenta: "Qui - si legge nell'epitaffio - giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860. Morì il 5 settembre 1876 all'età di trent'anni".
Un altro capitolo dell'amore per gli animali si ha leggendo le sue Memorie (peraltro l'opera migliore di Garibaldi). Siamo ai tempi del primo esilio (quello che va dal 1835 al 1848), in Sudamerica.

Leggete quanto dice sullo stallone: "Quanto è bello lo stallone della Pampa! Le sue labbra non sentirono giammai il freddo ribrezzo del freno e la lucidissima schiena, giammai calcata dal fetido sedere dell'uomo, brilla allo splendore del sole quanto un diamante. La sua splendida ma non pettinata criniera batte i fianchi, quando il superbo, raccogliendo le sparse giumente o fuggendo la persecuzione dell'uomo avanza la velocità del vento. Il naturale suo calzare, non mai imbrattato nella stalla dell'uomo, è più lucido dell'avorio, e la ricchissima cosa svolazza al soffio del pampero (il vento delle Pampas) riparando il generoso animale del disturbo degli insetti".

Insomma, lo stallone come "vero sultano del deserto, ei sceglie la più vaga delle odalische senza il servile e schifoso ministero della più degradata delle creature".

C'è poi il capitolo specifico su Caprera. Impossibile ricordare tutte le testimonianze di amore per gli animali. Di certo, si sa che nella sua Isola, il generale aveva proibito la caccia agli uccellini e mal tollerava quella a cinghiali e lepre e conigli. Gli uccellini per lui erano "la poesia e la benedizione della sua casa". Non solo: "Solo al veder un uccellino con la zampa spezzata mi fa venir male".

Per capire ancor più l'animalismo insito nell'animo garibaldino, occorre fare una piccola disamina della "Casa Bianca", cioè della centrale operativa di Caprera che non era, come tanta storiografia ha affermato, solo un "buen ritiro" del "Cincinnato". Tutt'altro. Caprera aveva i tipici caratteri del presidio politico. Prova ne sono i numerosi giornali e libri che arrivavano e i tantissimi visitatori che andavano a trovare l'Eroe dei due Mondi proponendogli più o meno ardite (e spesso fantasiose) imprese per la redenzione d'Italia.

Come scrive lo storico Zeffiro Ciuffoletti, la fattoria aveva campi di viti, stalle per mucche e cavalli, una concimaia, un fienile, la colombaia e il pollaio, magazzini per le derrate, un ricovero per attrezzi e macchine agricole, una macchina a vapore per estrarre l'acqua dal pozzo, un mulino a vento, un pozzo con tromba, un forno, vari orti, il giardino e le strade faticosamente ricavate da un terreno aspro e brullo come quello di Caprera.

Garibaldi amava moltissimo i cavalli e i cani, ma anche gatti, agnelli e pecore e, nell'iconografia popolare molto diffusa tra fine Orttocento e inizi Novecento, egli è sovente raffigurato a sedere nell'orto circondato da animali.

Un altro studioso che si è occupato di questi temi, Manlio Brigaglia, ci fornisce numeri assai interessanti. A esempio, nel 1866, la fattoria garibaldina contava 150 bovini, 214 capre, 100 pecore, 25 capretti, 400 polli, 50 maiali, 60 asinelli e 2 tori. L'amore per gli animali non impediva a Garibaldi di lanciare strali ironici e velenosi al tempo stesso contro i suoi nemici di sempre. Gli asinelli che lui amava alla follia? Erano quattro. E di nome facevano Pio IX, Napoleone III, Oudinot (il generale francese che, con l'inganno, riconsegnò Roma al Papa nel 1849 mettendo fine alla gloriosa esperienza della Repubblica Romana), Immacolata Concezione.

Lascio immaginare al lettore le reazioni dei cattolici, specie di Francia e Italia... Anche i cani erano quattro: Aspromonte, Bixio, Foin e Tho. Ma tra gli animali garibaldini non vanno dimenticate le api. L'eroe era ghiotto di miele, lo zucchero lo appassionava assai poco. Perciò curava molto le api. Aveva cento arnie e se ne faceva arrivare di speciali (costruite in vetro) dall'Inghilterra.

L'amore per gli animali portò anche a qualche imbarazzo tra i suoi fedelissimi. Più di un memorialista ricorda, sconcerato, come le colonne in marcia, col nemico alle calcagna, dovessero fermarsi per attendere che Garibaldi curasse un animale ferito trovato ai bordi della trazzera o di un viottolo nei boschi.

L'anticlericalismo di Garibaldi (cui si contrapponeva un profondo spirito religioso) trovò una delle sua basi anche nel trattamento che la Chiesa riservava agli animali. Al clero e al rifiuto dell'evoluzionismo imputava la responsabilità delle violenze - come nota Corrado Felice Besozzi - e della brutalità cui erano sottoposti gli animali. Nel mirino del Generale c'erano in particolare i gesuiti.

Non casualmente. Essi, infatti, per dimostrare che gli animali non avevano anima ricorrevano a un semplice esperimento: colpivano un oggetto di metallo con un altro oggetto sostenendo che i suoni emessi fossero identici ai lamenti degli animali quando venivano picchiati.

Ma l'animalismo garibaldino non si nutrì solo di azioni caritatevoli oppure di scritti infuocati. Nel 1871 fondò, assieme alla contessa di Southerland, la Società protettrice degli animali, in sostanza precorre quell'Ente nazionale protezione animali (Enpa) che vide la luce nel 1871.

E per concludere, è interessante riportare quanto accaduto nella data ultima della vita del nostro condottiero. E' il 2 giugno 1882. Garibaldi giace nel suo letto da dove vede il mare. Sta per morire. Due capinere si poggiano sul davanzale della finestra. E lui, con un filo di voce in quanto preda di un blocco faringeo, disse: "Lasciatele stare sono le anime delle mie due bambine (Rosa e Anita morte nel 1871 e nel 1875) che vengono a salutarmi prima di morire".
Francesco Ghidetti
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