{{IMG_SX}} MAMMA, Rina, viene da una famiglia contadina, il nonno era mezzadro, in casa avevano almeno da mangiare. Mio padre, Giovanni, veniva invece da una famiglia di piccoli commercianti, ambulanti, gente che andava casa per casa a vendere riso e bigiotteria. Era la povertà più totale: loro hanno fatto la fame perché oltretutto il nonno non ha mai voluto prendere la tessera del partito fascista e per molto tempo gli è stato impedito di fare i mercati. Dopo la guerra, erano sei figli, ciascuno per conto proprio continuò nel settore del commercio. Mio padre si buttò sui tessuti e ci sono stati alti e bassi, periodi di debiti e periodi più fortunati, però in casa non c’era mai un clima di preoccupazione, anche nei momenti peggiori i miei erano certi che le cose poi sarebbero cambiate».


Luciano Ligabue nasce a Correggio, provincia di Reggio Emilia con il boom economico, il 13 marzo 1960. Ma la sua non è un’infanzia tutta da Carosello.
«Intanto ho rischiato di nascere morto. Sono nato in casa e la levatrice non si è accorta che il cordone ombelicale mi stava soffocando. Sono venuto fuori che ero blu, cianotico. Poi a un anno e mezzo mi è venuta una gran febbre che non andava via. Il dottore la curava come influenza. Era appendicite, anzi peritonite quando sono arrivato in ospedale. Anche lì mi hanno ripreso per i capelli. A cinque anni mi portano a fare una normale operazione per togliere le tonsille: la notte un’emorragia, di corsa di nuovo in sala operatoria e poi sono rimasto ancora diciassette giorni in ospedale. Ecco tutto questo mi ha temprato. Da una parte avevo una grande attrazione per il gioco, il fuori, il movimento, "i pericoli", ma al tempo stesso sentivo che il mio corpo imponeva una forma di prudenza e anche dopo, durante l’adolescenza, la giovinezza, forse ancora oggi, c’è questa dualità in me».

 

Come vedeva suo padre quando era piccolo?
«Mio padre era un testosteronico, molto virile, molto decisionista, impulsivo, uno con cui dovevi avere le idee chiare da subito e non starci a pensare più di tanto. Faceva fatica a convivere con l’idea di avere un figlio timido come ero io. Lo ero a livelli patologici. Per lui questa paura del mondo grande che avevo io, era un concetto estraneo e per tanti anni non ci siamo capiti proprio a causa di questa diversità. Ma quello che mi piaceva di mio padre era la sua capacità di vivere, di godersela, era molto collegato con la vita».


E sua madre?
«Mia madre è sempre stata una persona gioiosa, una gioia contagiosa, ancora oggi è molto popolare, le donne vanno da lei a confidarsi. Molto aperta verso gli altri. Era ovviamente la parte sensibile della famiglia, capace di entusiasmarsi per qualsiasi cosa. Insomma i miei, entrambi, pur essendo persone semplici, che non hanno avuto modo di acculturarsi, hanno sempre avuto chiaro che cosa doveva essere la vita per loro e hanno perseguito questo obiettivo. Quindi sono stati un esempio che ha funzionato benissimo. Magari uno pensa che chi fa il rock debba avere per forza una giovinezza fatta di tensioni, di ribellioni che derivano dall’ambiente in cui è cresciuto e in particolare nei confronti dei genitori. Ecco, io quel pretesto lì non ce l’ho: ho sempre avuto ben chiaro il fatto che era una gran fortuna avere dei genitori come i miei».


Lei ha un fratello.
«Sì, che ha dieci anni meno di me e per questo fino a qualche anno fa – adesso le cose sono cambiate – sono stato per lui una figura a metà tra il fratello maggiore e il padre».


Amici?
«Tra i cinque e i dieci anni ne avevo nella zona in cui i miei avevano il negozio di stoffe, a Correggio. C’era una piccola banda di bambini e il pomeriggio lo passavo con loro, in strada, giocando a cow-boy e indiani. C’era un cinema a Correggio dove davano quasi sempre western, ci andavo con mio padre: quella era la mia fonte di ispirazione. Rivoltelle, archi, cavalli immaginari, agguati, duelli. Quando non giocavo con gli amici mi immergevo nei sogni, tipiche fantasie da timido».


Ossia?
«Mi costruivo un mondo diverso da quello reale. Un mondo fatto con quello che potrebbe essere e non è. Dentro ai film della mia mente correggevo gli errori, mi comportavo come non mi ero comportato, dicevo quello che non avevo detto e che avrei voluto dire. Insomma erano proiezioni di comportamenti di cui avrei voluto essere capace. Infatti da grande volevo fare l’attore e cioè la cosa che invece, da grande, mi riesce peggio di tutte».


Attore di film western.
«Ovvio, Anzi, più precisamente volevo fare Giuliano Gemma. Perché c’era anche Clint Eastwood che mi piaceva ma in lui non potevo riconoscermi perché era ambiguo, era buono ma poi ad un tratto poteva diventare anche cattivo. Invece Giuliano Gemma era decisamente il buono e alla fine vinceva sempre».


Ricorda il primo giorno di scuola?
«Un evento traumatico per come ero emotivo, direi insostenibile, non ero pronto ad affrontare una cosa così enorme come il primo giorno di scuola. Per me bisognerebbe parlare del primo anno di scuola. Anche perché avevo un maestro da incubi, che ti faceva mettere le mani sul banco e te le batteva con una canna di bambù. E’ stato capace di tenere un mio compagno per un’intera mattina chiuso nell’armadietto. Alla fine dell’anno ci fu una ribellione da parte dei genitori, ci trasferirono in massa in un’altra classe e allora le cose cominciarono ad andare meglio».


Docile alle regole?
«No. Fin da allora avevo difficoltà con le regole, faccio fatica a sottostare alle regole decise da qualcuno che non sono io. E anche allora era così: era faticoso essere puntuali alla campanella, mettere il grembiule e il fiocco azzurro, uscire in fila per due. Dovevo fare uno sforzo su me stesso, ma mi sono adeguato, lo trovavo inconcepibile ma lo facevo. Ero addirittura tra i bravi. Un tipo di situazione che si è ripresentata spesso anche in seguito».


L’incontro con la musica?
«Le canzonette mi sono sempre piaciute. Ricordo che da piccolo andavo in vacanza dalle parti di Bocca di Magra e fuori dagli stabilimenti balneari c’era il juke-box, circondato dal canniccio. Io e mio cugino – è venuto a mancare due anni fa, è dedicata a lui la canzone "Lettera a G." – ascoltavamo le canzoni di allora, Gianni Morandi e gli altri, e poi ci divertivamo a cantarle cambiando i testi. Le canzonette sono sempre state importanti. Seguivo appassionatamente Canzonissima, c’erano i duelli, ricordo Morandi e Ranieri contro Claudio Villa che per me era una specie di nemico perché rappresentava qualcosa che non c’entrava con me. Poi mi ricordo la Hit Parade di Lelio Luttazzi alla radio e infine l’incontro con Lucio Battisti, che è stato, ed è tuttora secondo me, il numero uno della musica popolare in Italia, un esempio, un punto di riferimento ancora oggi, canzoni popolari ma di qualità, che esplorano in termini di arrangiamenti, produzione, suoni e testi».


A questo punto lei doveva avere circa dieci, dodici anni.
«In quel periodo esplosero due fenomeni musicalmente determinanti. Da una parte il rock progressivo, cioè i Genesis, King Crimson, alcune cose dei Pink Floyd eccetera. Dall’altra i cantautori. Il primo album che ho comprato, era il ’72, a dodici anni, è stato "Darwin" del Banco del Mutuo Soccorso e subito dopo "Theorius Campus" ossia l’album in cui suonano assieme Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Rock progressivo e cantautori erano una porta aperta verso qualcosa di diverso, la possibilità di un altro modo di intendere la musica leggera».


Anche suo padre ha contribuito ad alimentare questa passione.
«Non so quanto consapevolmente. In quegli anni prese in gestione una balera dove si faceva il liscio tutte le sere ma la domenica pomeriggio si trasformava in discoteca, questo mi permnetteva di andare a curiosare, di fregare i dischi... mio padre però, proprio per l’esperienza della sala da ballo, ogni giorno ripeteva: "i musicisti sono tutti morti di fame", quasi come se volesse allontanarmi dall’idea. Però fu proprio lui che un giorno arrivò a casa con una chitarra, per regalarmela, di sua iniziativa».

Dall’ascoltare al fare musica.
«Beh, fare, sì, certo, credevo fosse facile: hai una chitarra, i cantautori imperano, ti dicono che bastano pochi accordi e le canzoni le puoi scrivere anche tu, insomma, è successo da sé: mi sono ritrovato a riprodurre le canzoni che amavo e poi ad avere voglia di scriverne io stesso. Ma erano canzoni che non avevano nessun altro scopo se non quello di funzionare da diario, invece che metterle su un quaderno, le cose che mi capitavano, le raccontavo così, con le canzoni, con la chitarra».


E non pensava che potessero rappresentare il suo futuro?
«No, per moltissimi anni ho scritto canzoni che non avevano nessuna ambizione di essere per altri. Erano solo per me. E sono state una palestra ottima, ho scritto tante canzoni bruttissime, però nel tempo sono servite a farmi trovare la mia voce, il mio linguaggio, il mio modo di espriemere con franchezza quello che volevo dire, senza artifici, senza voli pindarici, senza bisogno di imitare altri. Ho trovato il modo di raccontare il mondo che conoscevo e questo è andato avanti dai 15 fino ai 27 anni, quando ho fatto la prima esibizione».


Nel frattempo...
«Dopo le medie sono andato a Ragioneria perché non sapevo se sarei potuto andare all’università e allora meglio munirsi di diploma. E poi era vicino a casa, ci andavano tutti i miei amici. Certo, mi sarebbe piaciuto studiare altro, in effetti non guardo con grande affetto a quei cinque anni. Per quanto i primi due sono stati anche divertenti, frequentavo un corso strampalato e poi c’erano continuamente scioperi, occupazioni, insomma di partita doppia ne facevamo poca».


Fine anni Settanta, anni della seconda contestazione. Lei come era posizionato?
«Spettatore, spalla quando capitava, ma non sono mai stato uno che tirava le fila, un leader. Ero il classico cane sciolto. Mai presa la tessera di un partito. Ho sempre sentito il desiderio di essere libero, non desideroso di affiliarsi a qualche associazione/partito/setta o quello che vuoi».


Però nel ’90 è stato eletto consigliere comunale di Correggio nelle liste del Pds.
«Lavoravo all’Arci, mi occupavo di organizzare concerti, mi chiesero di farlo dall’interno del consiglio comunale, accettai, ma sono stato a tre sedute e mi sono bastate per capire che non ero tagliato per la politica, non è cosa per me».


Torniamo al ’79, lei si diploma ragioniere. E poi?
«Avrei voluto andare all’università, ma in quel periodo mio padre era disoccupato e allora pensai intanto di togliermi il servizio militare. Un anno di merda, il più brutto della mia vita, artigliere da montagna, a Belluno. Torno a casa ma mio padre era ancora disoccupato. Lui insisteva perché mi iscrivessi ugualmente all’università, ma non me la sentii, c’era da lavorare. E ho cominciato in una fabbrica, alla pressa per stampi di plastica e poi di seguito vendemmie, dj, ragioniere in un’azienda di motoseghe, custode di pellicce... fino al mio primo album nel 1990».


I giorni più belli sono tanti, il più brutto qual è stato?
«Il giorno in cui ho saputo che mio padre era malato e poi quello dell’operazione, dopo la quale ci dissero che non sarebbe guarito... stavo girando il secondo film "Da zero a dieci" che era già in partenza un film che ruotava attorno alla morte. Lo è diventato ancora di più».


Quando ha pensato di essere diventato adulto?
«Se l’ho mai pensato è cosa recente».