Roma, 10 aprile 2012 - ''Vado a Bergamo a dire che resto governatore e che non mi candido per nessuna segreteria''. Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, dichiara la sua indisponibilità a ad incarichi di partito. "L'impegno preso due anni fa con i veneti deve essere onorato fino in fondo. Resto convinto che a tutti i livelli il partito, soprattutto in questo momento abbia bisogno di quelle persone che nella Lega ci sono, con la massima capacità e libere da ogni impegno''.

RETROMARCIA INNESTATA - E' sempre la solita storia. Il Veneto patria del leghismo più vivo e forse meglio intrecciato al territorio rinuncia a lottare per la guida del partito. Sembra un tabù scritto nel Dna. Accadde per prima alla Liga veneta. Nata nel 1980, sei anni prima della Lega autonomista lombarda di Umberto Bossi, si è mimetizzata nel verde padano e da allora, pur mantenendo logo e marchio (presidente Flavio Tosi, segretario Giampaolo Gobbo) ha marciato orgogliosa e compatta come 'sezione nazionale' della nuova casa madre sino a perdere ogni fregio identitario: piallata via con le maniera spicce di chi voleva ribaltare Roma ladrona e invece è finito fulminato dallo stesso tic famelico.

LACRIME AMARE - La fragorosa caduta di Umberto Bossi e dei suoi famigli intrallazzoni, ma anche la rottura del cerchio magico che si era stretto attorno al Capo decriptandone i rantoli e nascondendogli le fatture, ad uso e costume di una dirigenza mal selezionata, ora riapre i giochi interni al movimento e solletica desideri di rivincita anche a Nordest. Dove il sentimento leghista si è più fortemente radicato e dove l'effetto mediatico della triplice inchiesta ha prodotto lacrime amare e persino sincere, specie nel ceto produttivo già segnato dalla tassazione alle stelle.

PROFILO VICARIO - Socia e azionista fondamentale del Carroccio ma sempre sottorappresentata nella catena di comando a vantaggio delle componenti lombarde e persino piemontesi, l'ala veneta aveva accettato il suo profilo vicario nei giochi sottili della politica nordista, parzialmente risarcita dal gioco di alleanze e tessiture attraverso le varie anime del Carroccio: il sindaco di Verona Flavio Tosi, col passare del tempo sempre più maroniano; il sindaco di Treviso Giampaolo Gobbo, bossiano di ferro come la vicentina Manuela Dal Lago, "donna con le palle" (definizione del Capo) e quindi assunta per direttissima tra i triumviri. Proprio lei, così scenograficamente antitetica alla nera Rosy Mauro, maliarda ora in disgrazia.

IN RIGA - Troppo poco? Probabile. Tuttavia la dirigenza veneta sembrava appagata da questo ruolo di complemento, di Serenissima patria dei comizi settembrini del Capo o di 'disciplinare' in carne e voti della conquista del territorio, con rare uscite dall'ambito locale così appassionatamente arato e seminato. Anche perché il bastone del comando bossiano non era così gentile con chi nutrisse dubbi o denotasse una diversa qualità d'azione.

ALLINEATI E SCOPERTI - Proprio così: per un Luca Zaia trasferito in pompa magna dal ministero dell'Agricoltura alla guida della Regione Veneto e accolto come salvatore della patria nei giorni dell'alluvione 2010 (subito risarcita dal governo del centrodestra con mano assai generosa), non mancavano i reprobi da stangare.

TOSI IL RIBELLE - Qualcuno ha forse dimenticato la recente insofferenza di Bossi per Flavio Tosi? Il sindaco uscente di Verona, maroniano convinto, è stato strumentalmente minacciato di espulsione dalla Lega per la libertà che si era preso nel disegnare il quadro di alleanze per la rielezione cittadina. Puzzle ricomposto appena in tempo.

ADDIO 'SERIFO'! - E come glissare sul grande freddo autunnale con l'ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gentilini? Sì, proprio lui, il mitico 'Serifo', condannato in tribunale per le inqualificabili boutades razziste, amato (e odiato) anche per le molte uscite omofobe, sciovinistiche, folkloristiche, capace di dichiarare guerra ai cigni reali, extracomunitari e zingari, per difendere le povere 'anarete' del Sile (piccole anatre sì, ma non in via d'estinzione). Epperò al primo sospetto di intelligenza col nemico storico Giorgio Napolitano, difensore della Repubblica, ecco che persino lui, lo sbruffone trevigiano così naturalmente sintonizzato con gli umori nordestini - ma prima di tutto alpino e quindi non secessionista - va a processo come traditore della patria che non c'è.

ANALOGIE E DIFFERENZE - E' il segnale di una Lega ormai centralista e poco democratica. Di una Lega che, tra ampolle e deliri, ha perso di vista i caposaldi della sua sintesi nordista. Perché mentre la Lega bossiana aveva sempre avuto la secessione e l'indipendentismo nel suo Dna costitutivo, la Liga Veneta, col Piave nel giardino, aveva il suo vero mantra nel federalismo fiscale, vissuto come risarcimento diretto al magna-magna romano e alla disattenzione di governo per un territorio infrastrutturalmente sottodimensionato.

INSIDIA NASCOSTA - Non a caso la passività dei leghisti veneti rispetto alla ribalta nazionale è sempre stata proporzionale alla voglia di fatti, di esiti concreti. Perciò la scoperta che a Roma e a Gemonio si banchettava mentre nel Nordest si predicava rigore e ordine, stavolta potrebbe cambiare il quadro. Costringendo il Veneto a reclamare una presenza vera ai vertici del partito, al di là dell'alleanza con lo stesso Maroni, ormai segretario in pectore. Il leader dei Barbari sognanti oggi appare lanciato, persino illibato. Ma potrebbe essere la prossima delusione. Solo per fare un esempio: Davide Boni e Gianluca Pini, coppia di indagati di alto profilo, sono gente sua.

PRIMA LINEA - Ecco perché stavolta, autoeliminatosi Zaia, da Tosi alla Del Lago passando per Gobbo o eventuali outsider, tra i 'conigli' veneti qualcuno che non voglia delegare, ma stare in prima fila a controllare i giochetti lombardi, dovrà per forza manifestarsi. Altrimenti al prossimo autogol - che in Italia è sempre dietro l'angolo - la base nordestina potrebbe davvero esplodere. Peggio che di fronte a un aumento delle tasse.