Roma, 17 settembre 2012 - Difficile capire a chi pensa Berlusconi, quando esprime la speranza (facilmente condivisibile) che le prossime elezioni portino a Palazzo Chigi la “vera guida” di cui il Paese ha bisogno. Non a se stesso, poiché le ferite lasciate dalla passata esperienza sanguinano ancora. Non può non rendersi conto che non fa più per lui il ruolo di catalizzatore di una coalizione vincente, o anche quello del collante capace di rimettere insieme i pezzi dell’elettorato “moderato”, tradizionalmente maggioritario.

Né può pensare di tirare la volata a un altro governo Monti, se significasse — dice — perpetuare «questa politica che ci porta verso la recessione». A meno che a Monti non riesca il miracolo di indurre la Germania a ribaltare la politica di austerità che strangola i Paesi debitori della Ue, per convertirsi alla via americana di uscita dalla crisi attraverso la lubrificazione del sistema economico con il pompaggio di miliardi di dollari stampati di fresco.

Sarebbe un miracolo dell’altruismo, considerato che le pene dei debitori ingrassano i creditori. Inutile aspettarsi che Berlusconi dichiari le sue carte, finché non sia chiaro a che gioco si gioca. Per esempio, se Renzi vincesse la sua sfida nel Pd il gioco della politica italiana ne uscirebbe radicalmente trasformato. Nel frattempo è anche inutile pungolare i partiti perché partoriscano una nuova legge elettorale. Come le scelte strategiche dell’economia, anche la scelta del metodo di raccolta dei voti dipende dai calcoli di tornaconto di ognuno.

Troppe incognite impediscono ancora di fare i conti. Ma non per molto. Decisivi chiarimenti sono attesi dai risultati delle elezioni regionali del 28 ottobre, in Sicilia. Se andassero male per Crocetta, candidato di Bersani e Casini, e bene per Musumeci, campione del centrodestra, il progetto di un asse elettorale tra sinistra e centristi sarebbe rimesso in discussione. E di conseguenza anche le convenienze a confronto sulla legge elettorale. Berlusconi sarebbe incoraggiato a ripensare al ritorno al voto di preferenza per l’elezione dei parlamentari, l’esca concepita per tentare di prendere all’amo Casini. E trovare del buono nella predilezione di Bersani per la salvaguardia del bipolarismo di coalizione, basato sui collegi uninominali e un consistente premio di maggioranza.

Si dirà che certi giochi di palazzo sono incompatibili con il dramma di un Paese che sta andando a rotoli, con quel che resta della grande industria sul piede di partenza, le imprese “minori” in debito di ossigeno con le banche, il mercato interno paralizzato dal disastro dei bilanci familiari. Tutti elementi che danno la carica alle forze antisistema e annunciano disastri per l’ordine pubblico, oltre che dispiaceri per la tenuta dei partiti “di governo”. Ma la maledizione della politica è appunto quella di credere che sia sempre troppo presto per cambiare gioco, finché non è troppo tardi. Vale anche per Berlusconi: non può alzarsi dal tavolo da gioco perché, anche se con lui la sua creatura politica non tornerà a vincere, senza di lui scomparirebbe. Come se non fosse mai nata.