Roma, 20 aprile 2013 - UNA NOTA dura ed esplicita, molta amarezza rattrappita in poche righe. «Oggi — ha scritto Romano Prodi in un breve commento vergato a Bamako, la capitale del Mali — mi è stato offerto un compito che molto mi onorava, anche se non faceva parte dei programmi della mia vita. Ringrazio. Il risultato del voto e la dinamica che è alle sue spalle mi inducono a ritenere che non ci siano più le condizioni. Ritorno dunque serenamente ai programmmi della mia esistenza. Chi mi ha portato a questa decisione deve farsi carico delle sue responsabilità». A Bologna la moglie Flavia aveva fatto lezione all’Università. Tornando a casa ha trovato una pattuglia di cronisti e li ha disarmati con poche parole: «Per me è una giornata normale, mio marito arriverà come previsto domani (ndr oggi per chi legge), sabato».

L’INTRECCIO di tenace normalità e di voli sui picchi del potere è cominciato il 9 agosto del 1939 a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. Romano era l’ottavo figlio di Mario, un ingegnere cresciuto in una famiglia contadina, e della maestra elementare Enrica che mise al mondo sette maschi e due femmmine. Dal Paese ai quattro angoli del pianeta, verrebbe voglia di dire. Il commiato da Bamako è stato una dichiarazione d’amore per l’Africa: «Non smetterò mai di lavorare per lei. Come uomo, come persona onorata di aver avuto l’incarico dell’Onu (inviato speciale di Ban Ki Moon per il Sahel ndr.), come italiano che sa benissimo quanto questo continente ci sia vicino e sia per noi importante». Lì c’era anche l’inseparabile Sandro Ovi, reggiano di Bebbio, all’Iri con il Professore, top manager che si è formato al Massachussets Institute of Technology e anche buon suonatore di organo in chiesa. Assieme all’ex cestista Angelo Rovati, «democristiano da sempre e orgoglioso di esserlo», Ovi ha aiutato Prodi a costruire la Fondazione per la pace e lo sviluppo dei popoli, nata nel 2008 dopo la seconda esperienza come Presidente del consiglio. «Io ho chiuso con la politica italiana – disse allora – e forse con la politica in generale». Era partito per il Mali mercoledì.

«È STATA una pugnalata alle spalle», sbotta il fratello Quintilio, architetto. «E’ stato tradito un’altra volta — reagisce Franco Prodi, fisico dell’atmosfera — è male per il Paese. Romano è l’unica persona che poteva tirarci fuori. Se l’Italia ha bisogno di lui, deve chiamarlo con dignità e rispetto e non con questi giochi. Dopo oggi la gente non darà più fiducia al Pd». Romano Prodi e Flavia vivono in un appartamento del centro che fu comprato quando erano ancora freschi di cattedra, una casa ristrutturata con operazioni diluite nel tempo. Quest’anno tocca all’ascensore. I giornalisti inglesi, scatenati alla ricerca del «castello del primo ministro», quando la videro non volevano credere ai loro occhi. L’altro immobile di famiglia è la «casona» di Bebbio, nell’Appennino reggiano, nella quale ogni anno l’ex presidente del Consiglio celebra il suo genetliaco assieme alla folla dei parenti, ormai 150 persone. Lì, nell’agosto del 1994, prese corpo l’idea di darsi alla politica. «Non sono uno da volata, ma un passista che arriva sempre», si racconta Prodi. «Una vita da mediano» di Ligabue, è stata la sua colonna sonora nel 2004. Esordì in una corsa ciclistica che fu vinta da Vittorio Adorni. Pedala ancora sui colli bolognesi con il solito gruppo di amici capitanati da Piero Gnudi, ministro per il turismo, e dall’avvocato cassazionista Franco Neppi. Fra gli alti e i bassi sono le uniche certezze alle quali non vuole assolutamente rinunciare.

di Lorenzo Bianchi