È PROBABILE che Massimo D’Alema avverta un certo senso di disagio: un problema di identità, uno smarrimento esistenziale. Con l’assemblea di ieri, infatti, il segretario del Pd ha completato il processo di renzizzazione del partito. Che concretamente si traduce nell’appropriarsi di uomini e simboli tipicamente dalemiani. Matteo Orfini, nominato presidente del Pd, era il portavoce di D’Alema, ma dalla crisi del governo Letta in poi si è trasformato nel coltello che Renzi impugna per tagliare i nodi che più l’affiggono. E quando i renziani hanno sentito il dalemiano Gualtieri ricordare all’assemblea che, a differenza dei compagni del Pse, «noi abbiamo vinto le europee», hanno capito che quel «noi», cioè Renzi, ha assunto un valore anche agli occhi dei nemici interni. Ce n’è abbastanza per fare ciò che nessun segretario proveniente dal Pci avrebbe potuto fare: l’apologia delle Feste dell’Unità. Così come ha portato il Pd nel Pse, il ‘democristiano’ Renzi si è dunque appropriato anche di questo «brand» tipicamente comunista. La pax renziana sembra funzionare. E l’assemblea di ieri è stata un plebiscito sulla linea del segretario-premier. Una fase sta dunque per chiudersi: approvate le ultime riforme, da luglio comincerà una partita nuova che, col grado di presidente dell’Ue, vedrà Matteo Renzi esibirsi sul delicato terreno della politica europea. Le scorie, naturalmente, restano. Il caso Mineo, fin troppo celebrato, è destinato ad esaurirsi e c’è da credere che da domani quasi tutti i 13 senatori dissidenti troveranno il modo di rimettersi in gioco nel partito. L’unico oppositore dichiarato è Pippo Civati, che certo non è solo. Covano rancore i lettiani, prima sedotti e poi abbandonati sulla via della presidenza pd. E molti bersaniani sono a dir poco inferociti. Non tanto con Renzi, però, quanto con Orfini: accusato d’essersi venduto al nemico. Diversi di loro caldeggiavano la nomina del presidente della regione Lazio, Zingaretti, ma la coppia Renzi-Orlando ha ritenuto che sarebbe stata troppo ingombrante. I malumori, dunque, non mancano. Ma è un brusio di fondo, interamente assorbito dal risultato delle europee (40,8%) che non a caso Renzi ha voluto incombesse sull’assemblea in forma grafica come «simbolo di speranza». Era invece un monito ai dissidenti, consapevoli del fatto che finché il premier avrà il vento in poppa più che mugugnare non potranno.

di Andrea Cangini