di MASSIMO DEGLI ESPOSTI
— MILANO —

TRA IL 2012 e il 2015 succederà qualcosa che l’umanità non ha mai visto: inizierà la fine dell’era del petrolio. Detto in termini scientifici, sarà raggiunto il ‘picco’, cioè il livello massimo di produzione consentito dai giacimenti scoperti (mentre quelli che saranno individuati di lì in poi non compenseranno più quelli in esaurimento). Se ne parla da decenni, tanto che esperti di tutto il mondo hanno creato vent’anni fa l’Associazione per lo studio del picco petrolifero (Aspo). Ma la novità è che la diagnosi non è più circoscritta alle sole, poche Cassandre. Anche una commissione del Pentagono, qualche settimana fa, è arrivata alle stesse conclusioni; e un ‘think tank’ britannico ha quasi dimezzato le stime sulle scorte mondiali di greggio (non più 1.350 miliardi di barili, come si credeva, ma 850 miliardi al massimo). E sono barili sempre più difficili da raggiungere ed estrarre: a migliaia di metri sotto il mare, con i rischi che abbiamo visto nel golfo del Messico, o sotto i ghiacci dei poli, oppure mescolati ad altre sostanze in sabbie bituminose o greggi pesanti. Notizia dell’altroieri: il giacimento più grande scoperto negli ultimi 10 anni, quello di Kashagan in Kazakistan (35 miliardi di barili, 16,8% dell’Eni), richiederà 20 miliardi di dollari di investimento per entrare in produzione, e solo dal 2019 anzichè dal 2012 come previsto. Fatto sta che «l’equilibrio domanda-offerta è fragilissimo, la capacità produttiva residua non utilizzata è solo di un milione di barili o giù di lì e, non quest’anno, ma dall’anno prossimo, la produzione potrebbe non coprire più la domanda mondiale».


IL PROFESSOR Ugo Bardi è uno da ascoltare con attenzione. Presidente della sezione italiana dell’Aspo e membro del comitato scientifico internazionale della stessa associazione, docente all’Università di Firenze, nel 2005 ci disse che il petrolio sarebbe salito a 100 dollari al barile e nel 2007 previde il record di 150 dollari e la successiva caduta. Tutto si è puntualmente verificato.
E ora?
«Da due anni a questa parte il prezzo del petrolio è abbastanza stabile, attorno ai 70-80 dollari al barile, che è una quotazione accettabile per i consumatori e remunerativa per i produttori. L’interesse reciproco gioca per un mantenimento. Ma la crisi ha contribuito a deprimere la domanda e calmierare i prezzi. Con la ripresa la domanda cresce, e allora...».
L’Agenzia internazionale per l’energia, infatti, ha rivisto al rialzo le stime dei consumi per i prossimi due anni. Serviranno 1,8 milioni di barili al giorno in più rispetto agli attuali 86,5 milioni. Cosa succederà?



«Dubito che i produttori possano far fronte ad un aumento del consumo di questa portata. L’Iraq non è tornato ai livelli pre guerra, la Russia è stabilmente sotto il potenziale e non ha risorse da investire per aumentare la produzione, l’Arabia Saudita dice di avere grandi capacità, ma nessuno sa se sia vero e da anni non estrae un barile in più della sua quota. Quindi, se la ripresa si rafforzerà schizzeranno i prezzi; se ci sarà una ricaduta della crisi, crolleranno ancora».
Insomma, continue oscillazioni?

«Sì, per almeno un altro decennio. Poi, se non verrà scoperta un’altra Arabia Saudita (e non verrà scoperta di sicuro) la produzione comincerà a calare davvero e i prezzi voleranno oltre i 150-200 dollari».
Risparmio energetico, fonti rinnovabili, energia nucleare non rimpiazzeranno il declino di petroliio e gas?

«Certamente, ma ci vorrà tempo. Per il momento, però, la quota sul totale del fabbisogno è ancora quasi insignificante».
E allora?

«Penso che dovremo rassegnarci a convivere con una penuria strutturale di energia. Dovremo trovare un nuovo equilibrio, più in basso, in attesa di nuove fonti abbondanti. Ma non so come tutto ciò potrà avvenire».