Bologna, 27 settembre 2010 - L’AFFIDO condiviso e i nobili princìpi che ne sono alla base, restano sostanzialmente inapplicati "per la difficoltà da parte dei giudici, a staccarsi da precedenti prassi consolidate, che sono proprio quelle che la nuova legge intende correggere". Quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge 54, che sancisce l’applicazione dell’affidamento condiviso in caso di separazione e divorzio dei genitori, sulla base di un principio ‘rivoluzionario’, quello della bi-genitorialità, è lo stesso ‘padre della rivoluzione’, Marino Maglietta, autore del testo base, a decretarne il fallimento. Nonostante la formale disposizione dell’affido condiviso, la frequentazione tra il minore e il genitore non convivente (quasi sempre il padre), viene disciplinata in modo del tutto analogo a quello adottato in caso di affidamento esclusivo, come dimostra il modulo di gran lunga più diffuso, che concede il minore al padre per poche ore, o un paio di pomeriggi a settimana quando va bene. Lo hanno scritto anche i giudici del tribunale dei minori di Milano che "in realtà il nuovo affido condiviso non si articola in maniera differente rispetto a quanto avveniva in precedenza". Paradosso fra i paradossi, l’aumento dei contenziosi.

DAL CILINDRO di chi deve far applicare la legge sono spuntate figure come il "collocatario prevalente" che sfuggono al dettato del legislatore e degenerano in interpretazioni quantomeno distorte. L’affidamento condiviso prevede il mantenimento diretto, che supera la delega in bianco di un genitore all’altro attraverso l’assegno per il mantenimento dei figli, perché il "vecchio sistema" — si diceva — crea ed enfatizza il distacco e l’assenza. "Ma il mantenimento diretto, casi alla mano, è rimasto lettera morta", sostengono all’Adiantum, l’associazione pilota nel mondo della tutela dei minori, che ha lanciato una class action contro il ministero della Giustizia, per la mancata applicazione della Legge 54. Il ministero ha risposto inviando i suoi ispettori nei tribunali. Si rimetterà mano alla legge. Sulla mancata chiarezza del quadro normativo sguazzano avvocati e consulenti, del tribunale o di parte, in una materia nella quale gli aspetti tecnico-giuridici offrono campo libero alle valutazioni di tipo psicologico e relazionale. A decidere di fatto sono valutazioni soggettive, sulla base di test la cui "inoppugnabilità" è dibattuta in seno alla comunità scientifica. Gli avvocati tendenzialmente sostengono con ogni mezzo le istanze degli assistiti, non di rado ricorrendo a prassi di dubbia correttezza deontologica, se è vero che nei contenziosi viene spesso prodotta documentazione non veritiera, relativa sia alle disponibilità finanziarie degli assistiti, sia alle accuse che hanno rilevanza penale. Altro business, le perizie. Il giudice delega lo psicologo/psichiatra (di norma il ‘giro’ degli esperti è molto chiuso) che, nella più ampia discrezionalità, formula il proprio parere. "La conseguenza è che casi simili vengono valutati in maniera difforme — stigmatizza il segretario di Adiantum, Alessio Cardinale — o che accada l’esatto contrario e cioè che casi non assimilabili, vengano messi sul medesimo piano".