di SILVIA MASTRANTONIO
— ROMA —

POCO DOPO le 16,30 un’auto dei carabinieri è entrata a Rebibbia passando da un ingresso secondario. Dentro, l’ex governatore della Sicilia e senatore del Pid (Popolari Italia domani), Salvatore Cuffaro. Non ha atteso l’ultimo minuto dei cinque giorni concessi per l’esecutività della sentenza che gli impone 7 anni di carcere. «Totò», come lo chiamano gli amici, ha voluto levarsi subito il dente e si è consegnato a Roma, prima in una caserma di piazza Farnese, non lontano dalla sua abitazione del Pantheon, poi a Rebibbia. Ieri la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a sette anni comminata in appello a Palermo. Cuffaro era accusato di favoreggiamento aggravato alla mafia e rivelazione di segreto istruttorio. Nonostante il Pg della Cassazione avesse sollecitato una riduzione della condanna non ravvisando prove nel favoreggiamento a Cosa nostra, i supremi giudici hanno deciso diversamente. Per Cuffaro e per tutti gli altri imputati.
«Mi adatterò a questa terribile esperienza — ha detto poco prima di consegnarsi, visibilmente provato — sono amareggiato ma sconterò la pena consapevole di avere sempre lavorato per il bene delle istituzioni».



POCHE parole, interrotte dalle lacrime. Totò Cuffaro ha atteso che la Cassazione decidesse, ieri mattina, raccolto in preghiera nella Chiesa della Minerva. La grande fede sempre professata, ha detto, lo ha sorretto. «Adesso — ha detto Cuffaro ai giornalisti — affronterò la pena come è giusto che sia, questo è un insegnamento che lascio come esempio ai miei figli». «Sono stato un uomo delle istituzioni e ho grande rispetto della magistratura che è un’istituzione, quindi la rispetto anche in questo momento di prova. Questa prova, che certamente non è facile, ha rafforzato la mia fede. Sono riuscito a resistere, in questi anni difficili, soprattutto perché ho avuto tanta fede e la protezione della Madonna. Ai miei figli voglio lasciare questo messaggio: devono avere fiducia nelle istituzioni e nella giustizia». Cuffaro ha poi raggiunto il carcere di Rebibbia dove è stato sistemato al piano terra, nel reparo G12. Una cella singola nel reparto ‘prima accoglienza’, in attesa di una sistemazione definitiva. «Voglio affrontare il carcere con tranquillità» le parole rivolte ai poliziotti penitenziari.


PERALTRO l’ex governatore della Sicilia è imputato anche in un altro procedimento di mafia che dovrebbe concludersi a metà febbraio, sempre a Palermo. Però la scelta di costituirsi a Roma a Rebibbia — come fatto, prima di lui dall’ex senatore Cesare Previti — non è stata casuale. In questo modo l’ex governatore siciliano ha «sottratto» ai giudici dell’isola la competenza a decidere sulle future istanze di detenzione domiciliare. La legge prevede che la competenza del Tribunale di sorveglianza sia legata al luogo di residenza o di detenzione. Non subito ma sicuramente presto gli avvocati solleciteranno gli arresti domiciliari e sicuramente Roma è più lontana dai presunti interessi configurati nel dibattimento. Come accadde prima di lui a Previti, per il quale furono accettate le richieste per scontare la pena prima in casa e poi in affidamento ai servizi sociali. E, sempre come Previti prima di lui, Cuffaro probabilmente presenterà le dimissioni al Senato prima che Palazzo Madama lo dichiari decaduto come prevede la legge dopo una condanna definitiva. A lui subentra Maria Pia Castiglione, anche lei del Pid.


AL CENTRO dell’inchiesta (partita nel 2005) e del processo che hanno portato in carcere l’ex governatore, le cosiddette «talpe alla dda di Palermo» che avrebbero consentito al boss Giuseppe Guttadauro di scoprire di essere sottoposto a intercettazioni attraverso microspie piazzate in casa. Condannati, nello stesso dibattimento Michele Aiello, boss della sanità siciliana e un ex carabiniere dei Ros, Giorgio Riolo. In primo grado a Cuffaro era stato attribuito il favoreggiamento semplice (con 5 anni di condanna), in appello era subentrata l’aggravante a favore della mafia con l’aumento della pena a sette anni.