di ANDREA CANGINI
— ROMA —

RACCONTANO fonti della Farnesina e della Difesa che è solo da un paio di giorni che i nostri servizi stanno lavorando al rebus libico nella speranza di pilotare la successione a Gheddafi. Ma non è facile. «Anche perché — dice Karim Mezram, direttore del Centro studi americani e profondo conoscitore della realtà libica — nessun governo occidentale, Stati Uniti compresi, s’è preoccupato di costruire nel tempo un rapporto con gli esponenti dei clan tribali né con le seconde file del regime di Gheddafi». L’Italia non fa eccezione.
«La verità è che i nostri governi hanno avuto rapporti solo con Gheddafi», ammettono alla Farnesina. Mentre un ministro di rango nei giorni scorsi ha sondato i servizi segreti e ne ha tratto l’impressione che non abbiano «la minima idea di quel sta accadendo in Libia e di quali possano essere gli sviluppi». Mezram non si stupisce: «Negli ultimi anni, i servizi libici hanno lavorato in Italia molto meglio di quanto non abbiano fatto quelli italiani in Libia». Il motivo? «Hanno più soldi per comprare informazioni e consenso». E il mitico servizio di sicurezza dell’Eni? «Un tempo era efficientissimo...». Un tempo.


NONOSTANTE
l’iniziale prudenza del nostro governo, ci è ormai chiaro che Gheddafi va scaricato. «Gli americani non accetterebbero mai di mantenerlo al potere e l’opinione pubblica internazionale non capirebbe», confida un ministro. Ma se nei primi giorni della rivolta si sperava di convincerlo a cedere lo scettro del comando al figlio Seif al-Islam (il più illuminato e riformista dei suoi eredi), l’ipotesi è ormai superata. «Bisognava farlo subito — dice infatti Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale e autore del libro ‘L’Italia e l’ascesa di Gheddafi’ — ormai il livello della repressione è tale che il popolo libico non potrebbe accettare d’essere governato da un Gheddafi».

QUALCUNO,
tra gli analisti della Difesa, ha inizialmente pensato di richiamare dall’esilio uno dei discendenti di re Idris, il sovrano deposto da Gheddafi nel ’69, ma l’ipotesi è stata accantonata. «Si tratta — spiega Mezram — di millantatori senza alcun seguito in patria». Non restano dunque che i capoclan. E infatti i nostri servizi stanno allacciando rapporti con le autorità civili che hanno preso il controllo di Bengasi. Ma gli interessi petroliferi italiani sono tanto in Cirenaica quanto in Tripolitania e tra le due regioni esiste un odio atavico che insidia una soluzione unitaria. Perciò l’Italia non scarta l’ipotesi di dividere la Libia in due stati indipendenti. «Magari — riflette Mezram —, ma ogni giorno che passa le neonate autorità locali si abbarbicano al potere e non sarà facile convicerli a mollarlo. Il rischio non è quello dei due, ma dei cento stati». Rischio Somalia, dunque. Uno spettro reso oltremodo inquietante dal timore che la rivolta libica abbia avuto una regia.


I NOSTRI apparati di sicurezza sospettano i sauditi. Mezram non fa nomi, ma sembra concordare: «Le condizioni di vita del libici erano più che dignitose, le concessioni di Gheddafi crescenti: non credo sia stato un moto spontaneo, temo che l’incendio della Cirenaica sia stato appiccato da frange islamiste pilotate da governi arabi ostili a Gheddafi». C’è chi lo pensa anche della Tunisia. E per questo che, tra la difficoltà di trovare interlocutori in loco e il rischio di massimalismo islamico, nessuno esclude l’estrema ratio di una spedizione militare internazionale.