dall’inviato

Lorenzo Bianchi
TRIPOLI
SULLE SPALLINE



della mimetica non ha nessuna stella. Abdul Hakim Belhadj, 45 anni, il nuovo comandante militare di Tripoli, ci riceve in una piccola sala della Foresteria delle delegazioni africane all’interno dell’aeroporto Mitiga, l’ex base americana Wheelhus che fu requisita da Gheddafi nel 1970. Nel bagno più vicino è un bella vista una bottiglietta di eau de toilette Loewe 7. Sul suo tavolo, abbastanza spartano, incombe un grande schermo piatto televisivo. Il primo canale della selezione è Disney Channel.
Lui arriva in tuta mimetica. Non è molto alto. Ce lo avevano descritto come un arrogante, ma non sembra burbanzoso. Quando ha ricordato che è stato l’amir, ossia il capo, del Gruppo islamico combattente della Libia — bollato dagli Stati Uniti come una organizzazione terroristica nella stessa lista nera di Al Qaeda — gli è sfuggito un accenno di sorriso prontamente represso.

PER RAGGIUNGERLO


siamo passati davanti ad almeno sei guardiani, tutti armati di kalashnikov. Nessuno si è sognato di farci aprire lo zainetto o il marsupio. «Sono il comandante militare di Tripoli, prendo ordini direttamente dai responsabili del Consiglio nazionale di transizione di Bengasi», è il suo asciutto esordio.
Belhadj ci tiene a ricordare che è arrivato nella sua città con i tuwar, i combattenti, della Brigata Tripoli. Quelli che assalirono Bab al Aziziya, la roccaforte del Colonnello.

CATTURATO


dai malesi a Kuala Lumpur, è stato riconsegnato al suo Paese nel 2004. Ha passato sei anni in cella, di cui uno nel buio assoluto. Nel 2010 è tornato libero. Il suo gruppo era stato sciolto e si era pronunciato per la non violenza.
Il suo passato non la imbarazza?
«Noi volevamo solo contrastare Gheddafi in Libia per il popolo di questo Paese. Hanno tentato di mettermi in prigione. L’unico ponte percorribile mi ha portato in Afghanistan. Era il 1988. Ci sono rimasto fino al 1992. Volevamo aiutare la popolazione nella guerra e nella costruzione della società civile».
Adesso si trova ad essere alleato degli americani. Ma due agenti della Cia l’avrebbero torturata a Bangkok...
«Non abbiamo problemi con gli Stati Uniti. Non li combattiamo! Nel 2000 ho incontrato Osama Bin Laden. Voleva reclutarci per la guerra santa mondiale».
E lei che ha risposto?
«Mi ricordo una battuta. Visto che voleva uccidere tutti gli ebrei e tutti i cristiani, lo invitai a non risparmiare i cinesi, che credono nelle pietre. Ha presente i famosi Buddha di Bamiyan? Insomma, se si hanno problemi politici, non è giusto tingere il contrasto con connotazioni di fede. I cristiani c’erano prima dell’Islam che è venuto per collaborare con le altre religioni. Semplicemente non crediamo in Al Qaeda. Questo vorrei dire ai vostri lettori».
Abdel Hakim Belhadj parla ormai come un perfetto uomo delle istituzioni. Ha invitato tutti a tornare al lavoro. Tutti, anche i poliziotti in forza quando comandava il raìs?
«Certo. Chi meglio dei vecchi ufficiali del corpo sa come far funzionare una questura? Abbiamo due settori sotto un comando unificato. Uno per la sicurezza civile, penso alle banche e agli edifici, ma anche ai vigili urbani, e uno militare. C’è ancora qualche avanzo del vecchio regime. Noi ripuliamo il terreno. Le brigate di altre città hanno ricevuto l’ordine di lasciare Tripoli».
Qualcuno resiste. Si intuiscono sintomi di divisioni interne anche violente.
A Belhadj sfugge una parola significativa: «Muskilla». Ovvero problemi. Ma «piccoli», detta subito all’interprete. «Noi vogliamo mettere sotto controllo anche gli armati di Misurata e quelli della montagna berbera, il Jebel Nafusa. Loro fanno qualche resistenza, cerchiamo di mandarli fuori dalla metropoli. Liberare non significa restare nel posto che si è sottratto al giogo».
Lei è favorevole alla Sharia, la legge coranica?
«Noi vogliamo che la rivoluzione sfoci in un Paese civile e democratico, con il popolo che decide con un voto».
E Gheddafi?
Con le dita il comandante fa segno che è circondato. Ma si contraddice sul luogo. Prima dice Ben Walid, poi aggiunge che forse è già riparato a Sebha».
I muri di Tripoli salutano ironicamente Gheddafi riprendendo un soprannome che circolava sottovoce durante il regime, riferito ai lunghi capelli ricci del raìs. Sugli intonaci ora si legge: «Shafshufa Maleshi. Ciuffetto perdonaci».