L’ATTACCO all’America non fu l’inizio. Quando, dieci anni fa, il terrore jihadista entrò nelle nostre case in diretta tv, eravamo ormai nella seconda fase di un progetto che affondava le sue radici nei decenni precedenti.
Il Grande Califfato Islamico, teorizzato da Osama Bin Laden, aveva già ricevuto la sua consacrazione nel 1998, dopo le stragi contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar al-Salam. Nel momento in cui Bill Clinton dichiarò che i militanti jihadisti erano il nemico numero uno degli Stati Uniti, la prima fase, quella della «proclamazione», era compiuta e Al Qaeda esisteva per il resto del Mondo. L’11 settembre non fu che il momento più alto della fase del ‘confronto’, il cui obiettivo era colpire l’Occidente, in particolare l’America, per provocare una reazione. Reazione che arrivò con l’attacco all’Afghanistan. Le devastanti conseguenze della fase del confronto hanno avuto come corollari le stragi di Madrid, Londra, Beslan, Istanbul e Mumbai. Ma se questa seconda fase sembra ormai arrivata alla fine, con la morte del suo ideologo, la terza, quella politica della ‘separazione’, bussa alle nostre porte, sotto gli occhi delle grandi potenze, così lacerate dalla crisi economica da non essere state in grado né di prevedere le rivolte popolari nei Paesi arabi, né di avere una voce sola nel decidere se e come intervenire. Basta affacciarsi sull’altra sponda del Mediterraneo per capire che le rivoluzioni spontanee contro regimi corrotti, rischiano di essere cavalcate da gruppi ben organizzati. Il disegno dei Fratelli Musulmani, non a caso, è quello di delegittimare i governi compromessi con l’Occidente e alimentare i contrasti fra le grandi potenze. Dalla Tunisia la protesta si è estesa a Egitto e Libia, trovando voce sulle frequenze della tv satellitare del Qatar
Al Jazeera. Il piccolo emirato non è semplice spettatore, ma arbitro del gioco, come sta facendo con la Siria, altro tassello che il Grande Califfato non può regalare agli avverasi, quei persiani sciiti che fanno capo all’Iran degli Ayatollah e che si contendono il dominio del Grande Medio Oriente.
La ragnatela di instabilità che sta facendo traballare tutti i Paesi del Maghreb, dall’Algeria al Marocco, fino a quelli del Corno d’Africa e del Golfo, è arrivata a minare le relazioni tra Israele e Turchia, avamposto in Europa del Grande Califfato.
Questa super-potenza si estende dall’Arabia Saudita, all’Afghanistan al Pakistan, passando per Siria, Giordania, Iraq, Arabia Saudita, Yemen, Barhein, Qatar, Sudan, Somalia, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Niger, Mali, Mauritania, Senegal e, più vicino, Serbia e Bosnia, o più lontano, Malesia e Indonesia.

UN GIGANTE



potentissimo, che da solo potrebbe decidere il destino del Mondo, aprendo e chiudendo i rubinetti del petrolio. Quel seme piantato durante gli anni Novanta, è germogliato. L’Italia, testa di ponte dell’Occidente, rischia di trovarsi da sola all’appuntamento con il 2020, l’anno in cui l’eliminazione e la purificazione saranno compiute, secondo i piani della jihad globale. Dieci anni fa l’attentato all’America ci colse di sorpresa. Ora non abbiamo più scuse. Nove anni passano in fretta.