Avola (Siracusa), 29 gennaio 2012 - LA TREGUA è sottile come il velo di neve che copre l’Etna. E sotto, come sul vulcano, cova la lava. Il ‘Movimento dei Forconi’ e le altre diciassette sigle confluite nel cartello Forza D’Urto che ha dato via alle ‘Cinque giornate siciliane’, tira il fiato, e in una assemblea tenutasi nella campagne di Catenanuova ha deciso una tregua. Una pausa dopo che con scioperi e blocchi spontanei (e non) aveva mostrato d’esser capace di prosciugare le pompe di benzina, svuotare i supermercati e dar voce a quel disagio potente e profondo che alligna in Sicilia.
Disorganizzato e litigioso, forte di un consenso reale tra agricoltori, pescatori, camionisti, legato a commercianti, artigiani e studenti, ma privo di una piattaforma rivendicativa chiara, il movimento vede anche materializzarsi un rischio insidioso: le infiltrazioni mafiose. A mostrarlo con evidenza l’arresto di Carmelo Gagliano, 45 anni, autotrasportatore di Marsala, tra gli organizzatori dei blocchi stradali nella sua provincia e accusato nell’inchiesta della squadra mobile di Caserta di aver prestato i propri mezzi ai fratelli Sfraga, referenti imprenditoriali delle famiglie mafiose Riina e Messina Denaro. Ma anche la denuncia per sequestro di persona contro cinque catanesi e un gelese, quattro dei quali con precedenti penali anche per associazione mafiosa, che domenica hanno costretto un camionista a seguirli a un presidio di protesta. E la presenza a una conferenza di presentazione del movimento di Enzo Ercolano, fratello di Aldo Ercolano, il killer del giornalista Pippo Fava e nipote del boss catanese Nitto Santapaola. Segnali sui quali indagano le procure antimafia.
«Forse — ammette Mariano Ferro, 53 anni, agricoltore di Avola ex berlusconiano ex seguace di D’Antoni, un fugace innamoramento politico per Saverio Romano del Pid, oggi capo indiscusso dei ‘Forconi’ — siamo cresciuti troppo in fretta». «Ma qua — rilancia — c’è una Sicilia da riscrivere. Basta clientelismo, basta cultura del non lavoro. La nostra è una rivoluzione democratica contro il sistema, partita da un terra di mafia silenzi e omertà. Siamo in guerra e chiaramente ci vogliono annientare».
E le infiltrazioni? Ferro allarga le braccia: «Posso chiedere il certificato antimafia a tutti quelli che manifestano con noi? Gagliano non era un nostro leader. Qualche testa calda si sarà esaltata, fanno bene a metterli a posto. E comunque noi diciamo, se c’è qualche ombra, fate pulizia. Ma noi andremo avanti». Populista? «Ma quale populista! Qua le aziende muoiono e noi poniamo problemi reali. Defiscalizzazione di carburanti, blocco delle procedure esecutive della Serit, la nostra Equitalia. Fondi comunitari per garantire accesso al credito…».

A CATANIA, Giuseppe Richichi, 61 anni, da vent’anni deus ex machina dei camionisti dell’Aias, sulle spalle tre blocchi della Sicilia dal 2000 ad oggi, ha il pelo sullo stomaco. «Infiltrati mafiosi? Perché nella politica non ci sono? E al signor Lo Bello che si indigna tanto, dico: cosa hanno fatto qui tante industrie, oltre ad inquinare la Sicilia? Mi facessero il piacere. E il governatore Lombardo la smettesse di cercare di mettere il cappello sulla nostra protesta. Quanto al nipote di Santapaola alla nostra assemblea, è un trasportatore: posso impedirgli di partecipare? Se è accusato di qualcosa lo mandassero in soggiorno obbligato. Ma non cerchino di usarlo per bloccare la nostra ascesa».
Sa che lo faranno, tutti sanno che le infiltrazioni mafiose sono una miccia accesa. Ma don Giuseppe Di Rosa, 71 anni, il parroco della chiesa madre di Avola che l’11 maggio organizzò l’incontro che diede vita al movimento, non molla: «E’ un movimento che nasce dal basso, dall’esigenza di gente che non riesce più a mantenere le proprie famiglie. E’ un cammino di popolo. Il potere cercherà di fermarci? Certo, ma penso che s’illuda. Vedrete, è solo l’inizio».