Ugo Bonasi
ROMA
PIER LUIGI

Bersani ieri somigliava a quei pugili degli anni Cinquanta che al quarto ko si ostinavano ad assicurare che «tutto va bene». Anche il leader del Pd — che alle primarie di Palermo ha visto soccombere la sua candidata (oltre che di Idv e Sel) Rita Borsellino rispetto a Fabrizio Ferrandelli, sostenuto da settori della Palermo che conta — ieri ha ripetuto il copione del dopo Milano, Napoli e Genova dove i suoi candidati sono stati cancellati da chi veniva espresso dalla «società civile».

PRESSATO

dalle critiche e da richieste di dimissioni, Bersani ha tenuto duro. «Sosterremo chi vince», ha assicurato con un occhio al riconto delle schede e un orecchio ai sospetti. A giochi fatti, ha scoperto che «in Sicilia ci sono problemi che le primarie non risolvono».
Nel Pd si sono subito alzate, in parallelo al coro in difesa di Bersani dello stato maggiore del partito, le voci di quanti — dai cattolici ai veltroniani — hanno visto nelle primarie palermitane la tomba dell’accordo di Vasto, quell’intesa con Idv e Sel che si voleva essere la base per le politiche 2013. Su questo argomento, anche se negato, c’è stato uno scontro a distanza con Enrico Letta che sostiene che quella «sola» alleanza non basta più, è il passato, bisogna guardare al centro. «Cosa c’entra Vasto con Palermo?», replica stizzito Bersani che ora però guarda al centro affermando che il centrosinistra «non si deve arroccare, ma aprirsi mentalmente rivolgendosi ai moderati e alle forze civiche». Una linea che trova pronta la sponda di Casini che vede in Bersani un possibile alleato «moderato e riformista». Nel Pd, però, Letta è seguito da Follini («A Palermo hanno votato contro Vasto, e la geografia non c’entra») e da altri Modem, come Gentiloni che, parlando delle grandi sconfitte del Pd, assicura che le «ragioni sono locali, ma il problema del Pd è nazionale», politico. Sulla loro scia si sono infilati i sostenitori del redivivo Veltroni: Tonini ricorda che a Palermo tre quarti degli elettori, in gran parte del Pd, hanno votato contro la proposta del partito. Motivo sufficiente per abbandonare l’accordo di Vasto che ogni giorno «perde credibilità e plausibilità». Dove andare allora? Bersani convochi, dopo mesi, la direzione e discutiamo, propone. Così un altro veltroniano, Verini. Basta con le sindromi da fortino assediato, chiede ricordando che il Pd dev’essere gestito con collegialità. L’aria è talmente brutta che il senatore Lumia, uno dei sostenitori di Ferrandelli, parla di dimissioni di Bersani: «Sentiremo la base e decideremo...».

LA DIFESA


della direzione era scontata. C’è chi, come Latorre, Orfini e altri, chiede di «smetterla con gli attacchi a Bersani». Andrea Orlando va al cuore del problema e suggerisce di rivedere l’approccio alle primarie, puntando su un candidato unico. Bersani coglie la palla al volo: «Quando metteremo mano alle regole faremo in modo che non diventino rese dei conti».