dall’inviato


Giampaolo Pioli
NEW YORK
LA «SIGNORA»

Aung San Suu Kyi , com’era previsto, anche se il conto dei voti non è ancora ultimato, ha stravinto ieri le elezioni a Rangoon per diventare membro del Parlamento birmano. Nel suo distretto il premio Nobel per la Pace e leader del partito «Lega Nazionale per la democrazia», ha raggiunto punte percentuali del 99%.
Un vero plebiscito. Una prova schiacciante di popolarità che la proietta immediatamente tra le voci più ascoltate del paese quando prenderà la parola come deputata dell’opposizione.
Dietro il suo successo personale però anche se alcuni osservatori della Ue arrivati negli ultimi giorni parlano di «segnali incoraggianti» potrebbero nascondersi brogli e irregolarità del regime sebbene le elezioni si siano svolte dappertutto senza violenze.
È lo stesso Nyan Win, portavoce del partito di San Suu Kyi a denunciare manipolazioni soprattutto nei seggi dell’interno lontano dalla capitale dove molti elettori non figuravano nelle liste e non hanno potuto votare mentre in diverse schede sarebbe stata messa della cera sul simbolo della «Lega Nazionale per la Democrazia» in modo da renderne impossibile il voto di preferenza. Un ricorso ufficiale è stato presentato alla commissione elettorale e molto dipenderà dalla risposta e dall’inchiesta per stabilire o meno la correttezza dell’intero processo.

LA GRANDE SCADENZA




infatti è adesso nel 2015 quando si terranno le elezioni generali. In quel caso potrebbe essere la stessa San Suu Kyi a poter correre per la presidenza, soprattutto se nel frattempo, sarà stata ritoccata la norma della costituzione che attribuisce d’ufficio il 25% dei seggi ai militari determinanti per formare qualsiasi maggioranza.
Il segretario di Stato americano Hillary Clinton, in visita a Rangoon a dicembre, aveva scommesso con coraggio sulla «svolta birmana» e ieri dalla Turchia si è subito congratulata «col popolo di Myanmar che in molti casi ha potuto votare per la prima volta». Ma la Casa Bianca è rimasta prudente nel riconoscere al regime per ora veri progressi limitandosi a dire che «deve continuare a fare sforzi per la trasparenza e per le altre riforme delle quali il paese ha bisogno».
Il forte coinvolgimento Usa e le ultime aperture dei generali hanno già permesso un allentamento delle restrizioni di viaggio ai membri della giunta militare da parte della UE. L’America vede il suo appoggio a Myanmar soprattutto in funzione anti-cinese nel tentativo di allontanare la ricca Birmania dalla soffocante orbita d’influenza di Pechino in un’Asia che diventa sempre più il nuovo centro del mondo. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki moon anche lui silenzioso artefice di questa «primavera a Burma» entro fine aprile ha in programma una visita a Rangoon e sigillerebbe queste mini-elezioni che hanno rinnovato solo il 7% dei seggi parlamentari come un «test di legittimità» riuscito, destinato a far dimenticare le elezioni farsa del 2010.
Molti dubbi rimangono però sull’espressione del «voto anticipato» che permette ancora a militari e dipendenti pubblici di votare diversi giorni prima negli stessi luoghi di lavoro, dove però la pressione dei superiori e del regime può diventare molto più forte contro il cambiamento.