ROMA, 4 agosto 2012 - STANDARD & Poor’s boccia l’indecisione di Monti, ma paradossalmente potrebbe allungargli la ‘carriera’. L’agenzia di rating, considerata la bestia nera dell’Italia, ha deciso di declassere 15 banche tra cui il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Popolare di Milano, Carige e la Popolare dell’Emilia-Romagna. Invariato il rating di Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mediobanca. Secondo gli americani, inoltre, il nostro Paese «si trova ad affrontare una recessione più profonda e prolungata di quanto stimato in precedenza. Crediamo che la vulnerabilità delle banche al rischio di credito dell’economia stia aumentando». S&P prevede per il pil italiano un calo del 2,1% nel 2012 e dello 0,4% nel 2013. La bacchettata dagli Usa conferma la sensazione che lo scenario della responsabilità nazionale possa non concludersi con lo scioglimento delle Camere, ma andare avanti anche dopo il voto. Tutto dipende da come evolverà la crisi economica: i mercati sono sempre sull’ottovolante, nessuno può fare previsioni. «Permane lo stato di incertezza», ammette Passera. Lo stesso Monti è costretto a valutare se sia il caso o meno di chiedere aiuto al fondo salva Stati: ne ha ragionato anche ieri in Consiglio dei ministri con la sua squadra. Per poi aggiornare la riunione alla prossima settimana, quando sarà più chiaro se il rimbalzo delle Borse è tecnico oppure dietro c’è qualcosa di concreto. Ufficialmente quel passo viene smentito, fatto sta che è stato proprio il premier ad ammettere che potrebbe servire «un’azione di accompagnamento per la stabilità finanziaria», ovvero — spiegano a Palazzo Chigi — l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce. Una cautela comprensibile, perché la richiesta di attivare lo scudo antispread comporta automaticamente l’accettazione di un memorandum di impegni, una forma cioè di commissariamento della politica: la Commissione Ue, la Bce e il Fmi gestirebbero l’agenda del risanamento che qualunque governo sarebbe tenuto a rispettare.

UN QUADRO che, secondo gli addetti ai lavori, spingerebbe verso le larghe intese e, inevitabilmente, verso la conferma di Monti: difficile pensare che Di Pietro, Vendola o Maroni possano portare avanti l’agenda, dopo aver condotto tutta la loro battaglia contro l’europeismo di Monti. Nell’Udc, però, sono convinti che comunque vada con gli aiuti, sia necessaria la Grande coalizione. Dice Rao: «Superata la crisi drammatica ci sarà spazio per la differenziazione programmatica». Casini ne ha parlato con Bersani, che per ora gioca un’altra partita: quella di costruire con Vendola un rassemblement che vinca le elezioni. «Non c’è bisogno di governi di unità nazionale: il centrosinistra è sempre stato un pilastro della Ue». C’è però chi tra i democratici ritiene ineluttabile una grande coalizione, sbocco che pure nel gruppo dirigente del segretario non si esclude: tutti però vogliono un Pdl ‘deberlusconizzato’. E nel partito del Cavaliere? Alcuni tifano perché finisca l’attuale esperienza, altri sperano che si vada di nuovo a larghe intese, magari con un nuovo premier. Berlusconi sta alla finestra: c’è chi gli consiglia di reclutare Draghi. «Impossibile che il presidente della Bce accetti», si ammette realisticamente.