Lorenzo Bianchi
SONO PASSATI 209 giorni. Le foto che pubblichiamo documentano l’unico impegno quotidiano di Massimiliano Latorre e di Salvatore Girone, i due sottoufficiali del battaglione San Marco addetti alla protezione della petroliera Enrica Lexie fermati il 20 febbraio a Kochi perché sospettati di aver sparato a due pescatori indiani scambiandoli per pirati. I marò sono diretti al commissariato di Ernakulam, l’ufficio della polizia nel quale debbono firmare ogni giorno un registro che attesta la loro presenza nella capitale del Kerala. Il compito quotidiano è il solo punto fermo delle loro lunghe e monotone giornate. Il tribunale di Kollam, una città a circa 200 chilometri da Kochi, ha fissato questo obbligo quando, il 2 giugno, ha deciso di scarcerarli su cauzione. Li accompagnano due militari italiani della delegazione che li assiste. I sacchetti che hanno in mano li dicono probabilmente reduci da un modesto shopping. Tutto il gruppo viene dall’hotel Trident. Nell’albergo Latorre e Girone ammazzano l’attesa infinita cercando di tenersi occupati. Entrambi hanno a loro disposizione alcuni attrezzi per fare ginnastica. Il Trident ha attivato anche una connessione internet che gli consente di navigare sul web e di rispondere alle e mail, il mezzo più economico per comunicare con le famiglie (ma nelle loro stanze c’è anche una linea telefonica esterna).

FRA UN PAIO di settimane la Corte Suprema di Nuova Delhi dovrebbe pronunciare il verdetto cruciale per le loro vite. Il condizionale è d’obbligo, perché la Seconda sezione non ha ancora indicato una data precisa per l’udienza. I magistrati dovranno stabilire se la competenza territoriale del processo è italiana o indiana e se i due fucilieri del San Marco sono coperti dalla «immunità funzionale». In attesa di questo verdetto l’alta corte di Kochi ha sospeso il suo pronunciamento sul ricorso per la traduzione in italiano degli atti che la polizia ha prodotto a sostegno dell’accusa.
Tutto l’assetto delle cosiddette prove è più che precario. A cominciare dalla circostanza che l’autopsia del professor Sasikala, direttore del Laboratorio di anatomo patologia del Kerala, sui proiettili trovati nei corpi dei pescatori ammazzati, descriveva pallottole di calibro 7,62, molto più grande del 5,56, quello delle munizioni dei fucili Beretta Sc 70-90 e delle mitragliatrici Fn Minimi in dotazione al nucleo di protezione della Enrica Lexie. E il relitto del peschereccio è stato salvato in extremis dall’affondamento nel porto di Kochi..

LA TESI dell’Italia, basata sul fatto che la petroliera era in acque internazionali, è che il processo spetta ai giudici di Roma. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi è stato netto: «C’è stato fatto un torto e vogliamo che sia riconosciuto, non intendiamo risolvere la questione con sotterfugi». «Il problema — ha rincarato — si è creato con la furbizia di chi ha costretto la nave a entrare in porto. I marò sono stati fatti scendere con la forza». Il comandante dell’Enrica Lexie fu invitato ad attraccare a Kochi per riconoscere il peschereccio che aveva tentato di abbordare la sua nave. La Convenzione Unclos (United Nations convention of the law of the sea), ratificata dall’India nel 1995, prevede che le false comunicazioni sono un «illecito penale». Il Kerala ha obiettato che il trattato non si applica perché non c’è ancora una legge nazionale di attuazione. L’ex ministro della difesa Ignazio La Russa è pessimista e chiede che si valuti il ritiro dei contingenti italiani da tutte le missioni antipirateria e addirittura da quelle delle Nazioni Unite che li vedono al fianco di soldati indiani (per esempio la Unifil 2 in Libano). «Ciò che è stato fatto finora — ha argomentato — non è sufficiente».