Roma, 9 gennaio, 2013 - LA CAMPAGNA elettorale è appena cominciata, ma si è già trasformata in una sorta di cantiere fiscale. Sono tutti al lavoro (almeno a parole) intorno all’Imu, probabilmente l’imposta più odiata dagli italiani. A destra la vogliono spazzare via, alla sinistra piacerebbe modificarla (esenzione per prima casa modesta e rincaro per i ricchi). Anche Monti vuole rimetterci le mani. La stessa Unione europea ha appena detto che non è molto equa, anche se ha corretto il tiro poco dopo: a provocare l’aumento della povertà fu la vecchia Ici, non l’Imu.
Se tutti sembrano attivissimi sul fronte del fisco (cioè delle entrate) non si vede un analogo fervore di ingegni sull’altro fronte: quello della spesa. E invece il centro del dramma è proprio questo (e si capisce allora perché i partiti ne stiano alla larga, limitandosi al massimo a dire che si farà la lotta agli sprechi).

ALL’INIZIO degli anni Settanta la spesa pubblica non era ancora esplosa e l’Italia viveva (dal punto di vista fiscale) una sua stagione felice con delle tasse che pesavano solo per il 33 per cento sul Pil di allora. Oggi siamo già arrivati al 45 per cento: 12 punti secchi in più. Il fisco più pesante, comunque, non ha impedito che l’Italia nel frattempo mettesse insieme un debito pubblico rilevantissimo: duemila miliardi di euro. Il Fisco si è fatto con gli anni cattivo e esigente, ma non è stato sufficiente. Per mantenere in funzione l’imponente macchina pubblica che intanto era stata costruita si sono dovuti fare debiti su debiti, per i quali oggi paghiamo almeno 80 miliardi di interessi all’anno. Il perché del dilagare della macchina pubblica è noto. Negli anni Settanta l’Italia è un paese di forti conflitti sociali. La classe politica di allora non è preparata a gestire le contestazioni. E così l’unica strada che trova è quella di distribuire soldi (pensioni di invalidità finte, pensioni di anzianità, provvidenze varie) e servizi gratis ai cittadini. Un ministro dirà: «Abbiamo scassato il bilancio dello Stato, ma abbiamo impedito una rivoluzione». Comincia da lì l’esplosione dei conti pubblici. E quindi della pressione fiscale.

DI FRONTE a questa evoluzione delle nostre vicende finanziarie, ci si domanda: ma non è possibile tornare alla «felicità» degli anni Settanta, quando allo Stato bastava un terzo dei nostri redditi per stare in piedi? E non più di metà come invece accade oggi? Certo che si può. Qualcuno ha fatto i conti. E ha stimato che bisognerebbe tagliare la spesa pubblica di circa 240 miliardi di euro su un totale di 800. Di fatto, un terzo. Facciamo pure l’ipotesi che questi conti siano un po’ abbondanti, ma è evidente che per tornare a una pressione fiscale accettabile bisognerebbe tagliare almeno 200 miliardi di spesa pubblica. E un taglio così, purtroppo, non si può fare riducendo semplicemente le auto blu o gli sprechi più vistosi.

BISOGNA andare più a fondo. Bisogna rivedere tutta la macchina statale (servono davvero cinque livelli di rappresentanza, comuni, comunità, province, regioni, stato nazionale?). Bisogna immaginare una macchina pubblica con metà o un terzo della burocrazia che c’è oggi. E bisogna ridisegnare il nostro sistema di welfare. Il welfare state è forse la cosa più bella (e più giusta) che abbiamo. Ma così com’è non ce lo possiamo permettere ancora a lungo. Insomma, la vera sfida non è ridisegnare l’Imu (cosa facile da fare), ma tagliare la spesa pubblica rimanendo un paese civile e perbene. Ma di questo in campagna elettorale non si parla.

di Giuseppe Turani