ROMA
AFFABULATORE
e contaballe, Giannino e Giannetto: questo è oramai il giornalista anticasta ultraliberale che prometteva di fare ciò che non è riuscito a Berlusconi. Mentre lui fa il mea culpa dei titoli accademici mai presi, impazzano voci su altre ipotetiche frottole che avrebbe raccontato. La lista implacabile e un po’ maramalda delle vanterie è lunga, va dalla partecipazione allo Zecchino d’oro ad una carriera in magistratura mancata. «Sono un dadaista: ricamo un po’ sulla realtà», si difende in serata. Intanto, Oscar sorprende pure gli iscritti al suo movimento: la mente corre al suo doppio, quel quasi omonimo Giannetto, come lo definì lo scorso novembre, durante il confronto tv tra i candidati premier del Pd, la simpatizzante vendoliana Serena. Ora Giannino cerca di salvare il salvabile dimettendosi dalla presidenza di Fare per fermare il declino. Tecnicamente resta candidato premier, gli intimi assicurano che, qualora passasse la soglia di sbarramento, si terrebbe il seggio ma lui è netto: «Lo lascerò a Fare. Non sono dimissioni false. Faccio sul serio, anche se non ho intenzione di chiudere con la politica. Poi deciderà il partito».

INTANTO

, volano gli avvoltoi per spartirsi il bottino elettorale: in un sondaggio Ipr pubblicato l’otto febbraio, l’ultimo prima del silenzio imposto dalla legge, il movimento era accreditato di un magro 1.5% (circa 350.000 voti). Si tratta di un consenso a macchia di leopardo che in alcune realtà particolarmente incerte come la regione Lombardia potrebbe avere un peso rilevante. Ecco perché Berlusconi si era accanito nei giorni scorsi parlando dei voti a Giannino come di voti sprecati e sottratti al centrodestra: guarda caso, c’è chi vede dietro il velo strappato la sua mano. «Non gli ho mai chiesto nulla e mai mi è passato nella testa di farlo», giura il Cavaliere. Giannino conferma, mentre gli esperti si dividono su chi potrebbe beneficiare della débacle, e i politici — dal centrista Libè al democratico Ceccanti — temono che l’unico a trarne vantaggio potrebbe essere Grillo. Malgrado il pessimismo dell’ex premier («non finiranno a noi»), a destra sperano che non finirà così. Assai interessato — come i due rivali in Lombardia — il leghista Maroni afferma: «Abbiamo le stesse proposte, gli elettori di Giannino votino me». «Se lo può scordare», replica il giornalista, mentre un appello identico è stato lanciato da sinistra da Ambrosoli e dal centro montiano da Albertini. Rincara il professore: «Oscar mi sta simpatico, spero non perda voti: in caso di fuga, li prenderemmo noi».
Intanto, Giannino racconta d’aver deciso di dimettersi lunedì, quando l’economista Zingales («non sono riuscito a parlarci: lui non mi ha pregato in ginocchio») ha fatto scoppiare lo scandalo. «Atto inevitabile. La perdita di credibilità è stata immediata». Dopo «una notte insonne» ieri il passo ufficiale durante una direzione di cinque ore («mi scuso con Monti che mi ha cercato: ero impegnato»), in un albergo di Roma, a tratti assai accesa. Alcuni lo attaccano, altri gli chiedono di rimanere. Lui cinguetta su twitter: «Dimissioni irrevocabili. I danni su di me per inoffensive ma gravi balle private non devono nuocere a Fare. È una regola secca chi sbaglia paga». Le balle private sono i tre titoli di studio fasulli pubblicati sul suo curriculum ufficiale. Ora dice: «Sono un autoditatta. Avrei voluto laurearmi ma ero troppo povero». Il difficilissimo compito di traghettare il movimento spetta a un’avvocatessa di Milano: Silvia Enrico. Tra maggio e giugno ci sarà il congresso.
Antonella Coppari