Marco Sassano
ROMA
POLEMICO

e severo con il fanatismo moralizzatore, aspro e duro con chi non seppe nel suo partito portare avanti, a metà degli anni Settanta, la politica del dialogo tra i comunisti e gli avversari di sempre, i democristiani, il presidente Giorgio Napolitano, analizzando il passato, parla dell’oggi e polemizza indirettamente con il Movimento 5 Stelle e con la maggioranza del Pd contraria a una politica di larghe intese.
Lo ha fatto commemorando, a 20 anni dalla morte, la figura del dirigente comunista Gerardo Chiaromonte. Il Capo dello Stato, criticando un po’ tutte le forze politiche, ha voluto sottolineare la necessità di avere una «visione della politica come responsabilità cui non ci si può sottrarre, e di cui si deve rispondere in primo luogo a se stessi».
Particolarmente secco è il giudizio sui grillini, pronunciato senza mai nominarli: «Certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica». E a una politica alta, il Capo dello Stato si è riferito nell’evocare la svolta comunista del 1976. Una svolta che lo impegnò in prima persona, ha ricordato Napolitano, «al fianco di Enrico Berlinguer nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana dopo decenni di netta opposizione». «E ci volle coraggio — ha sottolineato il Presidente — per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà, imposta da minacce e prove che per l’Italia si chiamavano inflazione, situazione finanziaria fuori controllo e terrorismo». Giorgio Napolitano ha anche rilevato che la fine di quella esperienza fu l’unico atto politico che lo divise dalla visione di Chiaromonte: «L’unico momento in cui non ci trovammo in piena sintonia fu quello della concitata chiusura, da parte del Pci, dell’esperienza della solidarietà nazionale. Decisione che fu foriera di un arroccamento fuorviante».
PRIMA


dell’intervento del Capo dello Stato, il presidente del Senato, Pietro Grasso, aveva citato una frase che, nel 1991, gli aveva detto Chiaromonte («per una politica che non si sa rinnovare non c’è futuro») sottolineando come questa osservazione sia «un insegnamento al quale, ancor oggi, in un quadro radicalmente diverso ma non meno complesso e delicato, dobbiamo fare riferimento».