Andrea Cangini

ROMA, 11 maggio 2013 - PARE DUNQUE che il fallimento del Consiglio dei ministri di venerdì e la conseguente figuraccia del governo siano stati dovuti alle carenze e ai vuoti della Ragioneria generale dello Stato e della tecnostruttura del ministero dell’Economia. Possibile? Possibile. Ma allora chi è che comanda, i politici o i burocrati?
Poiché le immagini parlano più delle parole, è a un’immagine che un ex ministro ci rimanda per spiegare il potere reale delle alte burocrazie pubbliche italiane. E l’altissima considerazione che hanno di sè. Dice: «Ti do due notizie: caso unico al mondo, la Ragioneria generale dello Stato ha ritenuto opportuno dotarsi di un simbolo. La seconda notizia la capirai da solo osservandolo». È vero, la Ragioneria ha un simbolo e si narra l’abbia disegnato personalmente l’allora ragioniere generale Vittorio Grilli: un grande triangolo, soggetto tipico dell’iconografia massonica, con una piccola, piccolissima stella repubblicana che pende dal vertice sul lato sinistro.
«COME A DIRE — conclude l’ex ministro — che lo Stato sono loro e la Repubblica è appesa alle loro decisioni». Non c’è differenza tra destra e sinistra, chi ha avuto responsabilità di governo racconta la stessa realtà. Ma pochi s’azzardano a farlo a volto scoperto. Fa eccezione Altero Matteoli: «Ho fatto quattro volte il ministro e qualsiasi cosa tu possa scrivere per denunciare quanto contano queste persone sarà sempre una parte infinitesimale della realtà». Ragioniere generale dello Stato, capi di gabinetto, direttori di dipartimento e capi dell’ufficio legislativo dei ministeri più importanti hanno dunque in pugno il Paese. E, notano tutti, da quasi vent’anni sono sempre gli stessi. Si limitano ad oscillare da una casella all’altra. Una casta chiusa, irresponsabile ed autoreferenziale.
Ricorda infatti Matteoli: «Nel 2001 nominai capo di gabinetto ai Lavori pubblici un professore, Paolo Togni, e la Corte dei Conti rifiutò di registrarlo perché, dissero, non aveva i titoli. Chiesi allora che titoli servissero. Muta risposta. Ma nel silenzio fecero pressioni su Palazzo Chigi per far nominare uno dei loro: un magistrato contabile o uno del Consiglio di Stato o uno del Tar». Matteoli si impuntò, ma gli ci volle un mese prima che Togni fosse messo nelle condizioni di ricoprire l’incarico.
SONO 15-20 persone, sempre le stesse. Il più noto è Vincenzo Fortunato, ex Tar, più di 500mila euro di stipendio l’anno fino a poco tempo fa.
Esordisce nell’87 come capo del legislativo delle Finanze, dal 2001, a parte un’esperienza alle Infrastrutture e poco altro, è stato ininterrottamente capo di gabinetto all’Economia. I ministri passano, Fortunato resta. Ora in uscita: ha fatto il diavolo a quattro per guidare il gabinetto del ministro Lupi, si occuperà invece della nuova società che gestirà la vendita del patrimonio immobiliare pubblico. Una posizione di potere niente male. Prassi che incoraggia gli alti burocrati a trattare i politici come pezze da piedi.
«Sono il vero e inamovibile potere italiano», sistetizza un ex ministro diessino. Mentre un suo omologo ex forzista rende la medesima idea citando Dante: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». Entrambi sostengono che le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria ad ogni provvedimento di spesa, «vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella ‘visione’ politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte ‘politiche’ diverse».

CHI CERCA un esempio in materia, lo troverà nel corsivo pubblicato a fianco. C’è un’altra cosa su cui i due ex ministri, pur di opposti schieramenti, concordano: «I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili». Un monopolio difficile da scalfire.