Bologna, 31 maggio 2013 - LA MORTE digitale è più grave di quella reale. Non è una bestemmia. L’identità digitale offesa, la nostra reputazione lesa è un’onta che contamina e travolge la vita vera fino a considerare il suicidio un atto meno drammatico rispetto alla sparizione dal web. La sottile linea rossa fra vero e verosimile è difficilmente individuabile, anche dai nativi digitali, ovvero chi nella rete è entrato da piccolo. Quanto piccolo? Il professore Mauro Alvisi, analista, presidente della Ventura Research di Ginevra e fondatore dell’Osservatorio del dialogo digitale (Redds) sostiene, dati in tasca, che il web ha cancellato le età della vita e le relative progressioni di crescita.

 

«L’ingresso in rete avviene ormai fra gli 8 e 9 anni, e da quel momento infanzia, adolescenza, giovinezza e maturità non esistono più. Si ha solo una vita trasversale».
 

Il fenomeno è inquietante, professore.
 

«È la realtà. Oggi il 70 % della popolazione italiana è in rete, nel 2003 era il 27 %».
 

Il disagio dei giovanissimi porta alla cronaca fatti molto gravi che sfociano a volte nel suicidio. Come può accadere?
 

«La rete ha due punti fondamentali che la caratterizzano: la capacità di influenza e quel che noi chiamiamo ‘engagement’, ossia la forza di coinvolgimento. Con il web si sposta il ‘sentimento’ di milioni di persone, cioè la percezione di sé e degli eventi che interessano. Ed esistono stati collettivi euforici e disforici. Faccio un esempio: la musica e lo sport sono settori che solitamente generano reazioni euforiche, positive. Ma la prevalenza del dialogo digitale è disforico, ovvero lesivo. Oggi desta più interesse parlar male di qualcosa o qualcuno, dunque l’opinione negativa si diffonde più rapidamente, e un semplice detrattore può diventare una gigantesca tribù capace di generare un’onda ingovernabile di fronte alla quale chiunque, ma soprattutto un adolescente, non può salvarsi».
 

Tribù?
 

«Sì. Internet ha un’organizzazione tribale. Tre sono le tribù dominanti: ci sono gli Evangelisti che fanno propria una convinzione e la diffondono metodicamente facendone una scelta di vita; gli Ambasciatori che amplificano l’idea in cui si riconoscono e che condividono, e i Detrattori, coloro che attaccano sempre e chiunque. Se si capita sotto il tiro di questi ultimi, non c’è scampo. Solitamente si soccombe alla potenza di fuoco e la reazione è quella di cancellarsi da un certo social network. Ma allo stesso tempo, l’autocancellazione corrisponde alla morte digitale e per molti questa è insostenibile, più ancora della morte reale».
 

Pensare che ancora gli psicologi dicono ai nostri figli di tenerli lontani dalla tv.
 

«La televisione è una balia inoffensiva rispetto al grande acquario della rete in cui ci si sente al caldo, ma dietro a splendidi fondali ci sono squaletti e mostri assassini».
 

Chi protegge i ragazzi più fragili, dunque?
 

«Nessuno. Potrebbe farlo, al momento, solo l’istituzione scolastica, ma tutti sappiamo quanto si ostini a tenersi distante dal mondo virtuale. Da tempo propongo un Osservatorio sul disagio digitale che servirebbe a monitorare ed emarginare le tribù di detrattori, informare i ragazzi, insegnare loro a difendersi».
 

Dalla vita si può sparire. Dalla rete?
 

«Le persone comuni non sono in grado di farlo. Cancellarsi, da Facebook per esempio, non serve a niente. Tutto ciò che facciamo sul web — tutto — lascia una traccia indelebile. Solo esperti di ingegneria reputazionale possono intervenire, e su richiesta intervengono, ma anch’essi possono solo allontanare nel tempo le tracce lesive, non eliminarle del tutto».

di Annalisa Siani