E CHISSÀ che per l’isola di Capraia, nei secoli dei secoli patria di religiosi come racconta anche Claudio Rutilio Namaziano nel suo ‘De redito suo’, non si torni alle origini della storia: allora rifugio di eremiti e anacoreti, domani approdo di sacerdoti in cerca di pace e preghiera ma anche di un insediamento creativo, per studi, ritiri spirituali e forse colonie per giovani, boy-scouts, seminari di cultura, incontri di dottrina. Dopo una prima visita esplorativa di qualche settimana fa, infatti, arriva oggi a Capraia il cardinale Camillo Ruini, accompagnato dal vescovo di Livorno Simone Giusti. Ufficialmente, l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana, oggi presidente del Comitato Scientifico della fondazione Ratzinger, viene per riposarsi. Ma un po’ tutti sull’isola, dal sindaco (lista civica) Gaetano Guarente agli imprenditori turistici, sanno che Ruini e Giusti coltivano un progetto: quello di ottenere dallo Stato l’ex diramazione della ex colonia penale agricola in località La Mortola, per farne un insediamento turistico-culturale del Vaticano. Con il sindaco, Ruini e Giusti (accompagnati anche da alcuni imprenditori vicini al Vaticano) ne hanno parlato a lungo, ottenendone l’assenso di massima. L’ostacolo potrebbe essere la Regione Toscana, che da vent’anni boccia ogni proposta isolana di riutilizzo dei tanti immobili lasciati dalla colonia penale vent’anni fa. Immobili che furono chiusi in piena efficienza, serviti di strade, illuminazione elettrica e acqua; e oggi ridotti a un ammasso di ruderi, vandalizzati, salvo rari utilizzi (un piccolo agriturismo e di recente una coltivazione a vigna).

L’ARRIVO odierno del cardinale Ruini riaccende dunque le speranze che il Vaticano faccia sul serio per la Capraia: e che riesca dove il piccolo Comune di circa 500 abitanti non ce l’ha mai fatta per riutilizzare il patrimonio della colonia penale. Un patrimonio enorme, concesso nel 1873 con delibera comunale al ministero: un terzo dell’isola,  tutta la parte nord a partire dall’allineamento del Vado (torrentello) del porto che fu messo a coltivazione grazie a un centinaio di detenuti. Nei decenni la colonia penale agricola realizzò strade, pozzi artesiani e cisterne per l’acqua piovana. Si scoprì che il terreno vulcanico era ricco di ottima acqua sorgiva. Furono approntati pascoli e fino alla chiusura della colonia penale, vent’anni fa a scadenza del contratto centenario, anche il paese ebbe a prezzi ‘politici’ ortaggi, carne delle cicliche macellazioni, latte, formaggi, la frutta della Piana. Sono in tanti che oggi rimpiangono la colonia. E sperano che possa tornare a rivivere, magari grazie all’impegno della Chiesa.