ROMA, 28 NOVEMBRE 2013 - Luciano Violante, la moltitudine di processi subiti da Silvio Berlusconi viene spesso spiegata con l’obbligatorietà dell’azione penale, principio che nasconde un’assoluta discrezionalità.


«L’obbligatorietà dell’azione penale è un’ipocrisia costituzionale, resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo».


Vede una possibile soluzione?


«Le possibilità sono due. O si pone il pm alle dipendenze del governo, ma io sarei contrario».


Oppure?


«Oppure si riducono i comportamenti sottoposti al codice penale. In ogni distretto di Corte d’appello i procuratori generali potrebbero, coinvolto parlamento e Csm, indicare le priorità penali da perseguire nel triennio successivo. È una strada contorta, ma necessaria».


Quanto contano la vanità e la voglia di protagonismo in chi avvia un’inchiesta giudiziaria?


«I magistrati sono uomini come tutti, non privi di vanità e ambizioni. Ma la questione è un’altra».


Ovvero?


«La vera separazione delle carriere andrebbe fatta tra magistrati e giornalisti. Ci sono cronisti di giudiziaria diventati famosi pubblicando acriticamente quel che gli veniva passato da chi come loro ambiva a far carriera. Il potere dei mezzi di comunicazione è l’unico potere assoluto, senza limiti: voi giornalisti dovreste interrogarvi».


La politica è alla mercè delle intercettazioni: nelle conversazioni private di tutti c’è una frase sconveniente che potrebbe obbligarci alle dimissioni.


«È così. Joseph Fouché, ministro di polizia ai tempi della Rivoluzione francese, diceva: ‘Datemi una frase e ne impiccherò l’autore’. Il tema è enorme e comporta conseguenze dirette sulla stabilità e la credibilità del potere politico».


Come ci si è arrivati?


«Con lo scadimento delle capacità investigative. Fino agli anni Settanta, prova regina era la confessione all’autorità di polizia. Ma dopo l’emersione di alcuni casi di tortura, la confessione perse valore».


E fu sostituita da?


«Prima dai pentiti e poi dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Alla cui diffusione la magistratura spesso ricorre per difendersi preventivamente dalle accuse degli imputati potenti, consolidando così nell’opinione pubblica l’idea della loro colpevolezza».


Berlusconi ha detto di pagare le ‘olgettine’ che testimoniano al processo Ruby. Rischia l’arresto per inquinamento delle prove?


«Non vedo i presupposti, lo escludo nella maniera più assoluta. Ma fossi in lui licenzierei l’avvocato che gli ha consigliato di mettere quelle ragazze a libro paga».


Si dice che «la legge è uguale per tutti», ma l’articolo 68 della Costituzione prevedeva l’immunità parlamentare per tutelare la funzione del legislatore e non certo la persona. Distinzione ormai incomprensibile ai più.


«Quello dell’immunità era un principio liberale, ma non è più ripristinabile. L’abuso del diritto genera la fine del diritto e non c’è dubbio che i politici abbiano abusato di quella prerogativa».


Esiste in Italia un problema di squilibrio tra potere politico e ordine giudiziario?


«Sì, è evidente. La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni ‘politiche’ — il terrorismo, la mafia, la corruzione — e alcuni magistrati sono diventati di depositari di responsabilità tipicamente politiche. Pensi alla Severino: possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati? La legge Severino testimonia il grado di debolezza raggiunto della politica».


È diffusa la tendenza a leggere la politica alla luce dei comportamenti penali o morali del singolo politico.


«Un segno dei tempi. È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia. Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante».


Di queste ondate moralistiche lei è stato vittima per aver sostenuto che la legge Severino forse meritava d’essere sottoposta al vaglio della Consulta.


«Dissi una cosa diversa e sostanzialmente banale: cioè che, come tutti, anche Berlusconi ha diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi. Ma oggi è difficile spiegare: vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter».


Soprattutto se si parla di Berlusconi, il Male assoluto.


«Berlusconi ha reso ancora più conflittuale la politica italiana, e la sinistra lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità ‘antiberlusconiana’. Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava».

di Andrea Cangini