MILANO
DICEVI
Gerry, ed era Gerardo D’Ambrosio, e non era il vicino della porta accanto, ma il procuratore della Repubblica di Milano. Gerry, D’Ambrosio, quel tipo di magistrato che della sapienza del diritto e dell’umanità partenopea fa codice genetico, una cifra del dna, un valore aggiunto inciso nella sostanza.
Di Gerry ora tocca parlare all’imperfetto. Non c’è più. È morto poco prima delle cinque del pomeriggio al Policlinico di Milano, dopo mesi di tribolazioni, una polmonite, qualche settimana di sollievo, ricadute, fino all’insidia di un aneurisma. A 83 anni (nato il 29 novembre 1930 a Santa Maria Vico di Caserta), e dato ormai come invincibile per sempre, dopo la seconda vita guadagnata nel 1991 con un trapianto al cuore, cosa che, uscitone indenne, rendeva superflui timori, fragilità, miserie degli acciacchi.
Gerardo D’Ambrosio muore nella Milano che aveva fatto sua, e ne dà conferma il procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, la voce incrinata che nasconda l’emozione dietro un comunicato ufficiale: «I magistrati della Procura della Repubblica si uniscono al dolore dei familiari per la scomparsa di Gerardo d’Ambrosio, già procuratore della Repubblica, e ne ricordano con immenso rimpianto le straordinarie qualità professionali e umane».

ECCO,



rimpianto. Per chi e per cosa rappresentava Gerry. Il Procuratore della Repubblica a cui rivolgersi, l’uomo che faceva di sé uno scudo a protezione dei suoi uomini. Il punto di equilibrio e di sostanza di quel pool di Mani pulite, col capo Francesco Saverio Borrelli e la squadra: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo. Lo stesso, Gerry, che, libertà di pensiero e autonomia intellettuale, con una decisione discussa, e senza temere di finire avvelenato dai sospetti, dopo indagini, sopralluoghi, e simulazioni strenue, conclude (è il 1975), da giudice istruttore, col proscioglimento del commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, qualificando — certo come ipotesi — la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, come un «malore attivo». Uno svenimento, dopo il tormento di tre giorni di interrogatori in questura, lasciato di fronte a una finestra aperta, quella del quarto piano di via Fatebenefratelli, cortile interno.
Lui, Gerry, che — anni ’80 e dei primi voraginosi crac — compone atti e atti d’inchiesta sulla madre di tutte le bancarotte, il Banco Ambrosiano dei Calvi, dello Ior e dei Gelli. Lo stesso, Gerry, che rinvia a giudizio Franco Freda e Giovanni Ventura per la strage di piazza Fontana, il primo bagno di sangue della strategia della tensione; e quanta amarezza, quando ricordava come il processo fu strappato, a lui e a Milano, e spedito a Catanzaro per un utile quanto presunto
fumus di una piazza avvelenata.
Uno mica facile da etichettare, Gerry: uomo di sinistra, come dimostrerà il suo impegno, una volta messo a riposo dalla magistratura, in politica (senatore coi Ds nel 2006 e poi col Pd nel 2008) e magistrato senza bandiere. Tacciato per fascista, accusato di comunismo: «Quando depositai la sentenza sulla morte di Pinelli — dirà, ed era facile parlare con lui come col vicino della porta accanto — e conclusi che non vi era prova di un coinvolgimento dei poliziotti, scrissero che ero fascista. Quando rinviai a giudizio Freda e Ventura per piazza Fontana i difensori mi ricusarono sostenendo che ero socialista».

NASCE


nel Casertano, entra in magistratura nel 1957. Passa per la Procura del Tribunale di Nola, poi a Voghera, poi a Milano. È il 1981, e assume ruolo di sostituto procuratore generale, sempre a Milano; è il 1989 quando è nominato aggiunto a capo del dipartimento a contrasto della criminalità organizzata. Nel ’91 Tangentopoli, con Mario Chiesa e le banconote buttate nel water. Nel 1999 procuratore capo a Milano; nel 2002, in base alle nuove regole del Csm che hanno già falciato menti lucide come quella di Francesco Saverio Borrelli, è costretto alla pensione. Ma continua, col cuore nuovo che batte a ritmo giusto, in politica. Mantiene rigore, ironia, bonomia, distacco: «Tra il ’92 e il ’94 siamo stati ingenui: pensavamo che ottenere 1.408 condanne definitive per tangenti bastasse a dare un colpo decisivo alla corruzione. Invece quando abbiamo toccato interessi più forti, ci hanno cambiato le leggi. Contro questa criminalità superiore, in ogni periodo storico, ci vogliono magistrati eccezionalmente capaci, autorevoli e preparati. E anche più coraggiosi». E poi diceva, di recente, ancora: «Riscoprire il valore educativo dell’integrità: sarebbe quella la soluzione». Con equilibrio, stando dalla parte della ragione ma conoscendo quella del torto. È chiaro che Gerry, ora, lo rimpiangano tutti.