VERONA
DELLA PADANIA
si rammenta solo il vecchio leone, Umberto Bossi, che sfida lo sguardo perplesso della statua di Dante Alighieri, assediata dal coacervo di bandiere leghiste e del Veneto in Piazza dei Signori. Di nuovo in piazza, anche a costo di fare la figura del reperto in questa Lega 2.0. Il Carroccio salta sul carro dell’esasperazione del Nord Est promuovendo una manifestazione di protesta per gli arresti degli irredentisti veneti e lombardi ordinati dalla procura di Brescia, culmine di un’inchiesta iniziata già qualche anno fa, quando il titolare degli Interni era quel ministro leghista che ieri era atteso (e annunciato), ma che non si è visto: Roberto Maroni.
«Fuori subito o li andiamo a liberare noi», tuona il segretario della Carroccio, Matteo Salvini. Sarebbe potuto con ogni probabilità diventare un mare impetuoso di uomini e donne, anche mezzo milione, se tutta la galassia dei movimenti che teorizzano l’autodeterminazione fossero stati presenti. La sensazione, sentendo i dialetti, è che il Veneto, nella città meno veneta che ci sia, Verona, sia rimasto a casa. Pullman hanno scaricato militanti leghisti da tutto il Bel Paese, non solo dal Nord, ma anche da Emilia, Toscana, Marche e Umbria. Folklore, una buona dose di ironia, che non guasta mai, i cori da stadio, la sfilata di una carriola dell’‘800 trasformata in un blindato con un cannone. I proiettili? Dei filoni di pane. L’adunata di ieri ha cristallizzato la rabbia di un territorio e, tramite il suo doge Luca Zaia, rilanciato l’appuntamento col referendum «che spero il consiglio regionale metta al voto presto», dopo l’ok dei giorni scorsi in Commissione affari istituzionali.

UNA RIVOLUZIONE


non violenta, nella legalità, attraverso l’autodeterminazione. «Non si arrestano le idee» ha detto Salvini, arrivato vestito di verde, ma salito sul palco del comizio in camicia bianca e il vessillo col leone di San Marco annodato al collo. Alle sue spalle il palazzo della Prefettura, con la bandiera del Veneto ammainata e fatta sparire dalla consueta posizione tra quella italiana e quella europea, fischiatissime dai militanti. «L’indipendenza è una questione che riguarda un popolo, non un partito», ha ribadito il governatore Zaia. «È grave che abbiano tolto la nostra bandiera», ha stigmatizzato. «Chi si vergogna di esporre la bandiera del Veneto, non ha diritto di stare nel Veneto».
Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha riferito dei controlli a tappeto al Vinitaly, inaugurato ieri, dell’ufficio del lavoro, scatenando l’ira della piazza. Primi a presentare il simbolo per le Europee di maggio, a fare dell’uscita dall’Euro una battaglia politica: dopo aver stretto alleanza con gli indipendentisti dell’Alto Adige la Lega cavalca come un cowboy al rodeo l’infelicità del Veneto esplosa nei giorni scorsi con pittoreschi episodi di cronaca, che hanno oscurato la portata ben più dirompente di quelli legati alla politica.
Il Carroccio ha ancora 170 sindaci in regione, ma la Padania non è mai stata tanto lontana dal pensiero della gente che nella crisi economica, e di identità, si sente sempre più lontana da Roma, vista come il quartier generale del nemico. Non è un pesce d’Aprile l’approvazione a maggioranza in Commissione Affari istituzionali del progetto di legge 342 col quale si chiede un referendum per verificare la volontà dei veneti di costituirsi «repubblica indipendente e sovrana». Con gli stessi voti, 34 su 60, è stato approvato anche il secondo progetto di legge, presentato dal Nuovo Centrodestra, di un referendum popolare nel quale la popolazione possa esprimersi sul Veneto regione a statuto speciale, dotata di autonomia fiscale sino a trattenere l’80% del gettito fiscale, più o meno come il Trentino.

ENTRO



questo mese, ha auspicato Zaia, il progetto di legge 342 verrà messo ai voti in Consiglio regionale. «È curioso che facciano i banchetti per raccogliere firme utilizzando il nostro slogan, 100 mila firme per l’indipendenza del Veneto, e le nostre bandiere» ironizza Alessio Morosin, leader di Indipendenza Veneta, capofila della galassia di movimenti o, gruppi, autonomisti. «Loro non hanno mai investito sulla credibilità e oggi dimostrano di essere senza un progetto politico, che non sia la strumentalizzazione dei mal di pancia della gente. Qui la Padania è ammuffita da un pezzo, così come è morto il federalismo, anche perché sei costretto a giocarti la partita che conta a Roma, dove sai già che esci perdente».