Lorenzo Sani
CHIAMIAMOLA
l’età dell’incoscienza. Tutto è anticipato rispetto alle generazioni dei padri, perfino il sesso. Ma spesso, ci insegna lo psichiatra Claudio Mencacci, «di fronte a certi fenomeni, compresi quelli drammatici come i suicidi giovanili, i genitori scoprono di non conoscere assolutamente nulla del mondo dei figli, perché in realtà non si impegnano ad ascoltarlo, tanto sono presi dal loro e vedere quanto si rispecchi in quello dei figli».
Che meccanismo scatta nella tesata dei nostri ragazzi?
«Attorno ai 10-12 anni inizia questo incredibile processo nel cervello che porterà alla maturazione, attesa per le femmine a 19-20 anni e un po’ dopo nei maschi, diciamo attorno ai 21-23».
Quale processo, professore?



«Ci troviamo di fronte a meccanismi ancora non del tutto conosciuti, ma per effetto dei quali miliardi di cellule vengono potate e altre invece potenziate. Iniziano a crearsi in questo modo quelle autostrade cognitive che porteranno il giovane a indirizzarsi nei suoi interessi».
Sempre più in contrasto coi genitori?

«Assolutamente sì: alla base del cambio di atteggiamento c’è un’opera di assottigliamento e di connessione di importantissime aree della corteccia cerebrale. Fino alla maturazione ci sono aree corticali non connesse fra loro. E ciò spiega la scarsa percezione del pericolo, o perché gli adolescenti siano così inclini all’impulsività, che non è solo la spensierata giovinezza, ma anche la causa che li rende esposti a tutto quello che è legato all’uso di sostanze, alcol e stupefacenti, o sensibili alle più svariate forme di dipendenza, dal videogioco, a quelli di azzardo, all’uso quasi compulsivo degli smartphone, per cui importante è essere connessi, non necessariamente insieme. È una nuova forma di solitudine. Questo mettersi alla prova, alzare l’asticella, è funzionale alla ricerca della propria identità. I ragazzi non hanno una percezione del pericolo come qualcosa di definitivo, ma è un elemento transitorio, violabile, a cui si può porre rimedio».
Cosa può fare un genitore?

«Prima di tutto non banalizzare, o minimizzare. I figli vanno cresciuti, ma vanno anche lasciati liberi. L’adolescenza, infatti, è un periodo complesso, la turbolenza mentale è evidente. Sarebbe importante cercare di tenere i figli legati a un minimo di stili sani di vita, penso allo sport, all’attività fisica che alimenti lo spirito di gruppo, il fare rete. Il rugby è la sintesi di tutto questo. E poi non passare la giornata pensando a impedire che i propri figlioli vadano a sbattere la testa. È giusto che uno avvisi, che segnali, ma poi basta».
E il ruolo della scuola?

«Stimolare interessi, passioni, non fare sentire al giovane che si trova in una sorta di parcheggio, ma che lì, in qualche modo, potrà costruirsi da sé il proprio futuro».