Nina Fabrizio
CITTA’ DEL VATICANO
C’È IL PIÙ GIOVANE

di tutti, Osvaldinho, un sedicenne di Capoverde che dopo un tragico tuffo nel mare d’agosto, lì dove però il fondo era troppo basso, ha riportato la paralisi degli arti. C’è Orietta, romana di 51 anni, che a soli due è rimasta colpita dal vaiolo, malattia così invalidante da gettarla anche nell’abisso dell’emarginazione. C’è Daria, 39 anni, che per una gravissima disabilità congenita è ricoverata fin da quando è nata. C’è Walter, di 59 anni, affetto da sindrome di down: due anni fa ha perso i genitori ed è rimasto solo. E c’è anche Hamed, 75enne libico e musulmano a cui un incidente stradale ha cambiato per sempre la vita in peggio. A loro e agli altri ammalati e disabili gravi del centro Don Gnocchi di Casal del Marmo, dodici in tutto come gli apostoli, papa Francesco ha rivolto la sua carezza.
Verso di loro, umilmente, si è inginocchiato, con dolcezza ha lavato e baciato i loro piedi. Poi il gesto di un sorriso per curare non solo la ferita del corpo ma prima ancora quella dell’anima. «L’eredità che Gesù ci lascia è quella di essere servitori gli uni degli altri», quello dell’ultima cena «è un gesto di congedo. Lui si è fatto servo», ha spiegato. Così Bergoglio, dopo aver rotto gli schemi l’anno scorso con la lavanda dei piedi a dodici giovani di un carcere minorile, tra cui una giovane musulmana, quest’anno per la messa in ‘Coena Domini’ che apre il triduo pasquale, ha scelto un altro luogo altamente simbolico di quelle «periferie esistenziali» che vuole rimettere al centro della missione, la struttura della Fondazione Don Gnocchi che ospita i più deboli e i più svantaggiati.

«SANTITÀ


è venuto intorno a noi!», gli ha gridato commosso accogliendolo un anziano ospite. «Adesso io farò questo gesto — ha detto Francesco introducendo la lavanda —: ma tutti noi, nel cuore nostro, pensiamo agli altri, pensiamo all’amore che Gesù ci dice che dobbiamo avere per gli altri. E pensiamo anche come possiamo servire meglio le altre persone». Concluso il rito, Francesco non si è risparmiato. Avvicinandosi a tutti gli altri infermi in carrozzina uno ad uno li ha abbracciati, benedetti, incoraggiati.
Del resto, il Papa lo ha sottolineato la mattina nella messa del Crisma, altro appuntamento centrale della Settimana Santa, la gioia del sacerdote è nella relazione con il suo ‘popolo’, tanto più quello sofferente. Una gioia che «ci unge» , ha avvertito, ma non che rende «untuosi, sontuosi e presuntuosi». Certo, ha ammesso, nella vita sacerdotale ci sono i momenti di «tristezza», quelli in cui tutto sembra oscurarsi, «apatici e noiosi», momenti, ha rivelato, «attraverso i quali anche io sono passato».
La salvezza è nel popolo di Dio capace di «aiutarti ad aprire il cuore» mentre «molti che parlano di crisi di identità sacerdotale», ha aggiunto, «non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza».