Olivia Posani
ROMA
VUOLE

un’«Italia nuova», Giorgio Squinzi. E guarda a Matteo Renzi: «Il mandato popolare dato dagli elettori al principale partito di governo e al suo leader testimonia la voglia di cambiamento che c’è nel Paese». Da noi nessun cedimento verso chi diceva «tanto peggio tanto meglio». Anzi, «sulla scheda elettorale uscita dall’urna c’è scritto: fate le riforme, ne abbiamo bisogno per ricreare lavoro, reddito, coesione sociale. Non deludeteci». Ora si può osare: «Dobbiamo cambiare facendo». Gli imprenditori sono pronti, «la nostra disponibilità è completa. Senza riforme è impossibile agganciare crescita e lavoro».
Squinzi legge le pagine della sua relazione all’assemblea annuale di Confindustria. Un anno fa aveva di fronte il presidente del consiglio Letta e mezzo governo. Ieri Renzi non c’era (ha disertato anche il congresso della Cgil) e la schiera dei ministri si era assottigliata.
Eppure l’apertura di credito verso il leader di centrosinistra che ha definitivamente abolito la concertazione, è notevole. «Dal governo sono venuti incoraggianti segni di rinnovamento: sulla legge elettorale, sulla semplificazione e sulla pubblica amministrazione, sulle riforme istituzionali, sulla legislazione del lavoro. L’azione vivace dell’inizio e il risultato straordinario del voto ci fanno sperare che la stagione delle riforme istituzionali adesso parta per davvero».
L’ottimismo di Squinzi si ferma però di fronte a una considerazione: «Temo — dice — che anche quest’anno la crescita che vorremmo vedere non ci sarà e non ci sarà il lavoro». Ricorda gli ultimi dati economici e tra gli applausi esclama: «Non è questa l’Italia che vogliamo, non ci rassegniamo a un Paese stanco e sfiduciato». Si attende molto dal semestre di presidenza italiana della Ue: «Deve essere l’occasione per ridurre gli eccessi di austerità applicata in modo asimmetrico e per iniziare un processo di avvicinamento tra istituzioni e cittadini d’Europa».
Uscire dal tunnel della crisi si può: con il credito (giuste le misure sui minibond per le imprese), con il taglio della spesa corrente, con uno Stato più leggero, con una bolletta energetica che non sia il 30% in più rispetto alle altre imprese, con minore burocrazia e minori «rigidità sindacali fuori dal tempo». I messaggi urticanti per Cgil, Cisl e Uil non finiscono qui: «Il tempo delle eterne liturgie è trascorso, sulle riforme bisogna agire rapidamente». Quanto ai salari, vanno legati alla competitività».

QUINDI





l’affondo sul Jobs act: «Non abbiamo bisogno di un nuovo contratto, neppure a tutele crescenti, bensì di semplificare quello a tempo indeterminato rendendolo più flessibile, conveniente per le imprese, e senza ostacoli che scoraggino le assunzioni».
In altre parole, via l’articolo 18. Ma basta anche con la burocrazia e con quella magistratura che tratta chi fa impresa come un «nemico della legge».
E gli imprenditori? «Forse nel passato non abbiamo fatto abbastanza», ma ora «abbiamo ambizioni grandi, Expo sarà la nostra vetrina». Dall’Expo alla lotta alla corruzione il passo è breve: «Chi corrompe fa male al mercato. A noi il dovere di difendere la nostra casa dai corruttori e di denunciare i corrotti che ci taglieggiano».