Claudio Negri
PIANGEVA
. Prima ancora che i rigori venissero tirati. Ma si può? Che dire, era un pianto preventivo, sullo spartiacque tra la gioia umida e la madida disperazione. Piangi uno e porti via due, al magro supermercato della vita, pur nel reparto giocattoli, c’è chi paga sempre col ticket lacrimale. Così alla fine, dopo aver parato mezzo Cile e stornate le Moire dell’eliminazione prematura del Brasile, non si capiva più di che cosa piangesse l’eroico guardiano. Per lui, da Porto Alegre a Manaus, titoli tripudianti, pindarici, addirittura marziali. Julio Cesar — non lo scopriamo solo ora — è il portiere più emotivo dell’universo. Ma resta nel contempo un grande della sua specialità solitaria, fatta d’occhi, mani e reni. Nei sette anni di strepitoso servizio in Beneamata, dal filotto di scudetti al Triplete, Julio Cesar molto parò e poco perì, raramente soccombendo ad alluci grifagni e avversi. In sette anni JC si oppose con successo a ben dieci tiri dal dischetto. Una chiara vocazione con virtuose recidive. Eppure il portierone sensibile ha conosciuto le sue drastiche Idi, svaporando l’Inter dei successi: si preferì liquidarlo quasi in fretta, perché la cosa che di lui pesava più di un groppo in gola o di un nodo di pianto, era il ricco salario percepito a ciglio asciutto e comunque meritato nell’enfasi meritocratica di Moratti. Indovinate quale fu la prima cosa che fece Julio Cesar appena seppe di essere stato giubilato: sì, pianse a dirotto. Poi tirò su col naso e se ne fece una ragione: trovò da impiegare le sue mani prodi da Flavio Briatore, patron del Qpr: due anni d’onorato servizio, senza infamia né sbrodo: 2 anni, 24 partite e 37 gol subìti. A seguire quello che pareva un prepensionamento forzato ancorché dorato a Toronto. Quest’anno 7 partite, 9 palloni oltre le sue spalle. Così le prèfiche piangevano già — per osmosi solidale — al suo funerale professionale. Invece, c’era da rallegrarsi. Perché negli snodi del destino JC sarebbe ritornato dal tramonto recando in palmo ai quarti quel Brasile la cui porta lui difende da dieci anni. Un po’ come quel rimatore provenzale, Arnaldo Daniello, che piange e va cantando. O parando.